Leggo attonito che a tutte le latitudini e da tutte le parti politiche si considera normale e addirittura quasi un diritto il previsto bombardamento iraniano di rappresaglia contro Israele. Come se un crimine ne giustificasse un altro.
E il futuro bombardamento iraniano di Israele sarà un crimine, perché è un crimine la rappresaglia che per definizione non è un’azione difensiva, perché una azione militare in un territorio estero è una azione di guerra e la guerra è vietata dalla Carta dell’Onu. Ma, appunto, ormai ci siamo tanto abituati alla guerra che non la riconosciamo nemmeno più.
Commentatori da salotto disquisiscono su quello che le agenzie stampa internazionali decidono di farci sapere. Quando, dove, come. Si esorta, si spera, nella moderazione. Nessuno che dica che non esiste nessun diritto alla ritorsione per l’Iran. Nessuno che dica che la rappresaglia iraniana non è giustizia, ma è vendetta e che invece gli assassini di Haniyeh devono essere puniti dalla giustizia internazionale.
Perché anche l’assassinio di Haniyeh è un crimine. Lo ha ricordato ieri lo “Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziarie” che in un comunicato, ovviamente non ripreso dalla nostra stampa, ha condannato l’assassinio di Ismail Haniyeh, “capo politico di Hamas ed ex primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, che porta il marchio di Israele”. “Se confermato – ha detto lo special rapporteur – ciò equivarrebbe a un’uccisione extragiudiziale e al crimine di omicidio. A tutti gli Stati è vietato privare arbitrariamente gli individui del loro diritto alla vita, anche nelle operazioni militari all’estero”, ha affermato. Le uccisioni all’estero sono ulteriormente illegali quando violano il divieto di uso della forza armata contro un altro Paese ai sensi dell’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite”.
E infatti ci siamo ormai abituati anche agli omicidi politici e consideriamo quasi normale che un uomo venga condannato a morte senza processo e che il boia esegua la sentenza senza nemmeno comunicarla. “E’ la guerra”, si dirà. No, non è la guerra, è omicidio e ci stiamo abituando a considerare normale l’omicidio. Da mesi assistiamo a una vendetta che chiamano guerra.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i Paesi vincitori si preoccuparono di processare i nazisti a Norimberga e a Tokio. Non li uccisero perché sapevano che, se avessero agito diversamente, sarebbero diventati come loro.
Ma ormai ci hanno abituati alle esecuzioni extragiudiziarie, agli omicidi politici, alle sentenze emesse non si sa da quali tribunali ed eseguite da missili e droni boia all’altro capo del mondo. La stampa mainstream riporta la notizia quasi svogliatamente, quando non entusiasticamente, annoverandoli come successi dei “buoni”. “Hanno ucciso tal dei tali, era un cattivo”. Ci siamo abituati anche alla pena di morte.
Non so quando tutto questo è cominciato in modo così sfrontato. Quando arrestarono Saddam Hussein si preoccupavano ancora di processare i vinti. Saddam fu processato e ci furono appelli, in Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II e del Partito Radicale, affinché non venisse eseguita la sentenza di morte.
Poi, un giorno, alla televisione ci dissero che avevano assassinato Bin Laden. Non che era morto nel tentativo di arrestarlo, ma che lo avevano giustiziato direttamente. E lo dissero come se fosse una buona notizia, che era stato ucciso, invece che arrestato.
Da allora uccidere i “cattivi” per strada con i droni, con i missili, con le bombe è diventata una cosa quasi normale, spesso giustificata, alle volte esaltata, comunque tollerata. Al massimo, e non sempre, ci si rammarica degli altri, quelli che non c’entravano nulla, uccisi, per fatalità o per la colpa di essersi trovati lì in quel momento.
E così la regressione morale dell’Occidente prosegue a grandi passi, trascinata in basso dall’eccezionalismo statunitense e dal suprematismo israeliano. E l’Italia segue, con buona pace di Cesare Beccaria.