Tutte le parole del Peace Camp il 1 Luglio 2024 a Tel Aviv mi hanno preso il cuore.
Quelle di Yuval Noah Harari mi hanno preso il cuore e la mente.
The Times of Israel ha percepito cinismo nel discorso del rinomato storico e filosofo Harari, io ho percepito una grande lucidità e una speranza ancorata alla consapevolezza delle grandi scelte.
Ci ha fatto andare indietro nel tempo Yuval, a quando questo pezzo di terra era abitato dai dinosauri prima e poi dall’homo sapiens, da gruppi umani, né israeliani, né palestinesi. “Il tempo ha portato le nazioni” ha detto Yuval, come per ricordarci che le nazioni non sono “naturali”, sono un’invenzione umana, sono state portate dal tempo, e chissà, forse il tempo, se le porterà via un giorno. Ha ammesso che ci sono dibattiti sulla storia passata di questi popoli arrivati in questa terra, ma una cosa è certa nel presente, questi due popoli ora convivono sulla stessa terra. E poi nel passaggio che ho bevuto come un’assetata, ci ha portato con lui, ragionando sulla vastità del mondo e sulla piccolezza della mente, che, per poter capire, taglia fuori la complessità. Se c’è una ristrettezza qui, non è una ristrettezza di terra, ma una ristrettezza di mente. Una mente stretta non riesce a com-prendere la co-esistenza di due popoli in una stessa terra e allora deve annientarne uno. Sì, da una parte e dall’altra c’è paura, la paura di essere annientati dall’altro. E Yuval riporta le dichiarazioni di principio di Hamas e quelle dell’estrema destra israeliana dove non c’è spazio per l’altro. Ma, conclude, si può scegliere. E “la pace è ampia e contiene moltitudini”.
Le parole e le frasi di Harari sono riportate a memoria ed è possibile che non siano esatte e si intrecciano con ciò che ho sentito e interagito nella mia mente e cuore, non me ne vogliate.
Harari è solo una delle persone che sono intervenute al Peace Camp presso l’Arena Menora Mivtachim, a Tel Aviv, ieri 1 Luglio 2024.
E’ stato un evento storico scandito dallo slogan: il tempo è arrivato: per raggiungere un accordo. Per fermare la guerra. Per fare Pace.
Sono intervenuti i familiari degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 Ottobre 2023 ai confini di Gaza, sono intervenute giornaliste e giornalisti, artiste, tra le quali Achinoam Nini (da noi in Italia conosciuta come Noa), membri delle organizzazioni per la pace, leaders religiosi delle tre religioni monoteiste, e membri della Knesset tra i quali Naama Lazimi e Gilad Kariv del partito Labor, e Ayman Odeh, del partito Hadash.
Hanno organizzato più di 50 organizzazioni della società civile israeliana, ebrea e araba, hanno partecipato migliaia di persone in presenza all’Arena e altre migliaia hanno potuto guardare l’evento in streaming e seguire grazie ai sottotitoli in inglese.
Una parola chiave è stata, sì, sicuramente “pace”.
La parola “pace” in Israele-Palestina non è mai stata banale, tanto più dopo il fallimento degli accordi di Oslo. Anzi, come hanno ricordato più voci e più volte dall’Arena, ci sono generazioni cresciute senza prospettiva di pace. Nei miei diversi viaggi in Galilea, sentivo proprio questo, il disagio nel parlare di “pace”, perché intere generazioni hanno imparato a non fidarsi della pace, a non credere nella pace, a non desiderare più la pace. Beffarda nel peggiore dei casi (come negli accordi di Oslo che si sono tramutati in un reticolato di porzioni di territorio spezzettato da check point, strade escludenti, e muri) o naïf nella migliore delle ipotesi.
Se non fossero bastate le testimonianze dal cuore, sono stati proiettati dei filmati brevi che hanno mostrato come la pace impossibile è diventata possibile: in Sudafrica, Irlanda del Nord, Rwanda.
Ho sentito, dal cuore, un’altra parola chiave, nelle varianti di“ spazio” e ancora di più “terra”. Sono tornate più volte, in un ritornello che sembrava togliere il velo da una realtà così palese: due popoli vivono sulla stessa terra e la loro vita è inter-connessa, inter-dipendente, intrecciata. L’espressione “dal fiume al mare”, tirata da una parte e dall’altra in modo esclusivo, è stata più volte ripresa come espressione per denominare una terra comune, dove vivere insieme, in sicurezza, giustizia e libertà.
“Vita” è l’altra parola significativa che voglio scegliere tra quelle che tornavano nei discorsi di leaders e ragazze, giovani e vecchi, religiosi e figure politiche. Un richiamo ad amare la vita, a desiderare la vita.
E l’ultima parola che scelgo di riportare è sicuramente “speranza”, come la intende la mia amata Joanna Macy, “speranza attiva” e, come le fa eco, forse senza saperlo, Maoz Inon, israeliano, anche lui diventato un volto noto in Italia per aver incontrato il Papa all’Arena per la Pace di Verona, il 18 maggio scorso, insieme al palestinese Aziz Abu Sarah.
Aziz è intervenuto con un video messaggio come molti attivisti e attiviste per la pace palestinesi dalla Cisgiordania che non sono potuti arrivare a Tel Aviv, proprio per la disparità di diritti che vige anche in merito alla libertà di movimento.
Maoz Inon, i cui genitori sono stati uccisi il 7 ottobre a Netiv Ha’asara, con la t-shirt “Imagine Peace”, ha trasformato l’espressione “avere speranza” in “fare speranza”, come aveva già fatto in un bellissimo ted talk con Aziz Abu Sarah. Ha detto: “per salvare me stesso, ho iniziato un viaggio, sul cammino della pace e della riconciliazione. Noi creiamo la speranza, insieme, immaginando un futuro comune, e lavorando per farlo diventare realtà”.
Ilaria Olimpico