Riprendiamo dal sito Osservatoriorepressione.info parte di un articolo di Camille Polloni (in Médiapart) tradotto da Salvatore Turi Palidda

Un giornalista si è infiltrato nella polizia francese, descrivendone la violenza, il razzismo quasi quotidiano di alcuni agenti di polizia e l’assurdità delle missioni rispondenti alla politica dei numeri.

Il giornalista Valentin Gendrot ha spinto l’inchiesta giornalistica sino all’infiltrazione nei ranghi della polizia realizzando quindi un’etnografia esemplare perché efficace anche dal punto di vista militante antirazzista e antifascista.

Tutta la sua lunga, paziente, penosa e molto pesante esperienza l’ha raccontata nel suo libro Flic pubblicato quattro anni fa e che ora è diventato anche prova giudiziaria nel processo che la Procura di Parigi ha intentato contro un poliziotto. Ma  la procura non andrà molto oltre l’attitudine dell’ispezione interna dell’IGPN, che da sempre tende a confermare la garanzia di impunità accordata a quasi tutti gli operatori delle polizie, come avviene anche in Italia.

Per questa inchiesta giornalistica di tipo etnografico Gendrot ha quindi scelto di farsi reclutare come “assistente di sicurezza” (il primo stadio per entrare nella polizia francese come poliziotto semplice).

Già al corso di formazione scopre che il suo vicino di branda è un giovane cattolico praticante che da tempo è collezionista di oggetti che glorificano il Terzo Reich come un busto di Hitler e  scopre anche che il collega Mick chiama gli arabi reietti “monnezza araba” [e dice] che  “rimanderebbe indietro i migranti con appositi charter”.

Finita la formazione percepisce uno stipendio di 1.340 euro al mese ed è assegnato all’infermeria psichiatrica della questura di Parigi (I3P). In questo servizio situato in una dependance dell’ospedale Sainte-Anne, la questura trattiene in arresto, per un massimo di 48 ore, persone affette da disturbi comportamentali e che rappresentano un “pericolo imminente per la sicurezza delle persone”.

Sebbene abbiano diritto a un avvocato, Valentin racconta che non ne vede nessuno durante i suoi quindici mesi di presenza. “Sono dimenticati dagli dei e dagli uomini”, gli disse un giorno un’infermiera. Persone in crisi, tossicodipendenti, senzatetto, migranti.

Il 9 marzo 2019, Valentin è infine trasferito alla stazione di polizia del 19° arrondissement. Questo è l’incarico che auspicava di più perché centrale per la sua inchiesta: “Era ciò che volevo ottenere e mi ero prefissato: sei mesi di immersione in questo luogo”.

Lì scopre gli arresti di venditori ambulanti, le “operazioni meschine e vigliacche” che permettono di “gonfiare artificialmente le statistiche” e il razzismo quasi quotidiano di alcuni agenti di polizia contro quelli che chiamano “bastardi”, cioè ragazzi per lo più neri o arabi. “Nella mia stazione di polizia si sentono ogni giorno parole razziste, omofobe e maciste. Sono tollerate o ignorate dagli altri.”

Lì vede agenti di polizia “sbattere un migrante nero contro la pensilina dell’autobus e poi nel furgone della polizia, picchiare un altro marocchino […] schiaffeggiare diverse persone in custodia, sempre arabe o nere.” “Andiamo a caccia!” “Sangue chiama sangue”, sente dire dai suoi colleghi che “daranno la caccia ai bastardi”.

[L’espressione “caccia al negro” era usata da alcuni agenti della polizia locale di Bologna già alla fine degli anni ’90 e anche da altri agenti di altre polizie locali e nazionali, vedi i libri di Palidda Polizia postmoderna e Polizie sicurezza e insicurezze].

Un giorno è costretto a redigere una falsa denuncia per insabbiare il caso di un suo collega che aveva preso a pugni un giovane. “Dal punto di vista giornalistico è oro. Ho elementi dalla A alla Z. Ma come cittadino ovviamente non posso accettarlo. So che scrivendo questo libro posso denunciare i fatti e posso anche convincere altri a farlo. Il falso in atti pubblici è punito con quindici anni di carcere, è peggio che colpire un minorenne. Tornerò ovviamente sulla mia testimonianza riguardo a questo minore”.

L’immersione di Gendrot gli permette quindi di raccogliere prove del razzismo sistemico e della violenza impunita da parte della polizia. “Nel giro di sei mesi mi sono reso conto che il mio livello di umanità ed empatia era diminuito. Come se questo lavoro mi vaccinasse contro la sensibilità”.

Quattro anni dopo la pubblicazione del suo libro Flic la Procura ha aperto il processo contro un poliziotto per abusi e violenze.
Nella requisitoria definitiva del 10 luglio 2024, consultata da Médiapart, la procura del tribunale di Parigi chiede che solo un poliziotto sia inquisito per tale vicenda. Questi contesta l’accusa e il suo avvocato non ha ancora reagito.

La vicenda si svolse il 12 aprile 2019: una pattuglia di quattro poliziotti, fra i quali il giornalista infiltrato, controlla dei giovani che ascoltano della musica sotto un edificio. Un adolescente di 17 anni è arrestato per oltraggio e minacce a pubblici ufficiali. Sin dal suo arresto afferma che l’agente Marc F. l’ha colpito a pugni nell’auto della polizia, l’ha stretto al collo e insultato. Le violenze sono confermate da Valentin Gendrot nel suo libro. Malgrado le ferite al sopracciglio destro e al collo, constatate da un medico legale, il giovane A. non ha beneficiato di alcuna interruzione di lavoro.

In una registrazione che Gendrot ha fornito al giudice, il poliziotto Marc F. dice di aver dato “una patata” (un colpo) all’adolescente “alla bocca”. Nel corso dell’inchiesta giudiziaria ha invece detto che l’aveva solo “percosso” a mano aperta. Nella stessa registrazione dice che ha dato “dei piccoli schiaffi” al fratellino di A., che non si è mai presentato alle convocazioni dell’Ispezione generale della polizia nazionale (IGPN).

Per questi colpi, la procura chiede un non-luogo a procedere. “Per quanto inadatto e famigliare tale atto possa essere -scrive il magistrato- è ancor più suscettibile di riguardare una sfera deontologica” passibile di una sanzione disciplinare “sin d’ora  già pronunciata”, oltre che penale.

Il rapporto redatto dopo il fermo di A. non menziona alcun colpo del poliziotto. Gli agenti indicavano semplicemente di aver dovuto “tenerlo” sul sedile nell’auto, per impedirgli di “scagliarsi contro di loro”. Scrivono anche che avevano “usato in modo proporzionato la coercizione” per farlo sedere e ammanettarlo.

Solo Gendrot è tornato su tale versione dei fatti ammettendo di aver dato una falsa testimonianza per “coprire” i suoi colleghi e continuare la sua infiltrazione senza ostacoli. Malgrado le sue dichiarazioni e quelle di Marc F., che riconosce delle omissioni in tale rapporto ma invoca “la dimenticanza”, nessun poliziotto è mai stato inquisito per falso in scrittura pubblica da parte di persona depositaria dell’autorità pubblica inerente reati penali.
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La requisitoria definitiva ricorda infine che il libro Flic riporta “otto infrazioni” (violenze e/o falso in atto pubblico) o, almeno, una “mancanza deontologica”. In maggioranza commessi “a pregiudizio di vittime non identificate” soprattutto migranti particolarmente precari, ma tutti questi reati resteranno impuniti [la polizia del regime Macron e del ministro dell’interno fascista Darmanin è da tanto tempo protetta da tale impunità, che come ben sappiamo in Italia è corrente sin da dopo il G8 di Genova].

Leggi qui il seguito dell’articolo:

Uno straordinario esempio di giornalismo d’inchiesta contro abusi e brutalità poliziesche – Osservatorio Repressione