E mentre io concludevo il precedente articolo su Suliman e Fatima mettendo a fuoco il loro dilemma fra due alternative entrambe, per motivi diversi, pericolose (restare a Gedarif o partire per Port Sudan) loro decidevano di partire e la sera di quello stesso giorno, 14 luglio, arrivavano a Port Sudan dopo 15 ore di pullman.

Il tempo del viaggio, già di per sé lungo -mi spiegava Suliman, con cui poi ho avuto modo di comunicare a voce via Whatsapp – è stato ulteriormente allungato dai frequenti controlli della polizia stradale: la zona è pericolosa, c’è sempre il rischio di incursioni delle SRF, le Forze di Supporto Rapido (i “ribelli”). Ed eccoli arrivati in questa caldissima città con la temperatura che oscilla fra i 48 e i 52 e finanche 55 gradi. Si sono subito recati all’Ufficio dei passaporti ed hanno fatto la richiesta per quello di Fatima (scaduto): dovranno attendere 7-10 giorni. Chiedo come si sono sistemati. Stanno in un appartamento con più stanze in cui alloggiano tutti sudanesi del Darfur: è un appartamento preso in affitto da uno di loro (“uno ricco” mi dice Suliman) che ospita tutti gli altri. Ci sono diverse stanze ed in ogni stanza si sono sistemate circa 4-5 donne da una parte e 4-5 uomini dall’altra (“come a scuola”). Ci sono due bagni – uno per le donne e uno per gli uomini. Penso che questo sudanese “ricco” sia anche una persona generosa che ha a cuore la sorte dei suoi conterranei. Purtroppo non c’è alcuna forma di areazione – né ventilatori né tanto meno aria condizionata. Suliman mi assicura che hanno a disposizione qualche soldo per fare la spesa: la figlia dalla Germania ha inviato loro giorni fa una cifra per coprire le spese del viaggio fino a Port Sudan e un po’ di sussistenza per i giorni seguenti.

Chiedo di raccontarmi cosa è avvenuto al campo di Kumer la mattina di mercoledì 17 luglio, dal momento che avevo ricevuto da lui un comunicato e molte foto. La notizia era di un eccidio per mano di un gruppo di milizie etiopi: avevano ammazzato 16 poliziotti federali e ferito altri 4. Il campo rimaneva così completamente scoperto per l’assenza “sia del governo etiope sia degli Stati Uniti” e i rifugiati venivano a trovarsi in una situazione molto difficile. Circa l’eccidio Suliman mi dà dei numeri un po’ diversi: parla di 9 guardie federali uccise, o forse 10, e 6 ferite. Chiedo dell’Onu. “L’Onu tutti scappati” mi risponde. Scappati con le RSF che hanno fatto prigioniere le restanti guardie federali e insomma le autorità del campo; ora i “ribelli” chiedono al governo sudanese un riscatto per la loro liberazione.

Chiedo a Suliman com’è la vita adesso nel campo, se ne ha qualche notizia dato che lì è rimasto anche il loro nipote. Innanzitutto scopro che al campo di Kumer non sono più in 10.000 come all’inizio: circa 5.000 persone, vedendo l’insicurezza generale del vivere in quell’agglomerato senza una vera protezione, si erano già incamminate verso Gondar fermandosi a un altro campo profughi, non lontano dal loro, quello di Halola. Le persone rimaste sono circa 3.050, ed ora sono cinque giorni che non ricevono acqua: vanno a prenderla a 1 Km circa di distanza dove c’è un corso d’acqua “ma non è pulita, è acqua sporca”. Non so come facciano con il cibo, mi chiedo se qualcuno di quei mercatini minimali di cui mi parlava sia rimasto in piedi. E mi chiedo qual è la prospettiva di queste tremila e più persone, fra cui tante donne con bambini e senza mariti, chi si occuperà di loro. E voglio ricordare che tutte hanno diritto -riconosciuto dai colloqui della commissione dell’Onu- all’asilo politico. Chi si occuperà di rendere realtà concreta questo diritto acquisito dopo mesi di vita di nomadismo, indigenza e soprusi subiti, oltre alle tante sofferenze e paure? Da qualche giorno poi lì a Komer non c’è più la possibilità di ricaricare i telefonini: non c’è elettricità perché non arriva la benzina.

Che ne sarà di loro?

E che ne sarà di Suliman e Fatima, e dei loro attuali compagni di appartamento?

Gli altri non so, ma Suliman e Fatima intendono raggiungere l’Egitto e non sarà facile. Oltre al caldo impressionante, molto al di sopra della media stagionale pur alta (raccontavo nel precedente articolo delle decine di morti avvenute qualche settimana fa nella zona di Assuan, a sud dell’Egitto) e alle difficoltà del percorso a causa della guerra, ci sono ‘motivi di salute’. Penso che il mondo va proprio all’incontrario quando la precarietà della salute di un cittadino anziché essere elemento che accelera le pratiche per la sua fuoriuscita da un Paese che non può curarlo le rallenta e gli crea ostacoli.

Suliman è malato di reni e anche in Etiopia era stato trasportato (da un’ambulanza dell’Onu) dal campo di Kumer all’ospedale di Gondar per fare delle analisi relative alla prostata; si era pensato anche di portarlo ad Addis Abeba, forse ad operarsi, ma poi gli avevano dato semplicemente una cura. Ora mi diceva che l’Ambasciata d’Egitto gli prescriverà delle analisi e lui sa che se uno risulta ‘malato’ il visto non viene concesso. Peraltro l’Ambasciata Italiana in Sudan (è l’Italia che Suliman e Fatima vorrebbero raggiungere come ultima meta, ma le assegnazioni ai Paesi ospitanti non sono ancora state fatte dalle commissioni dell’Onu che hanno portato tutti i dati raccolti dai colloqui ad Addis Abeba, e lì a quanto pare si sono fermati), con la guerra ha lasciato Khartoum e si è trasferita…ad Addis Abeba (luogo, a me sembra, in cui tutto si annebbia e si confonde), lasciando a Port Sudan soltanto un ufficio con un solo impiegato. Il caso vuole che questo operatore sia un amico di Suliman ma 1) non può prendere alcuna iniziativa così da solo 2) andrà in pensione il 1° agosto.

Per concludere sul discorso della salute, anche Fatima ha bisogno urgente di cure: lei ha una malattia auto-immune che si chiama “Lupus”, malattia per la quale si dovrebbe evitare come nemico principale… il sole!

Auguriamo con tutto il cuore a Suliman e Fatima di raggiungere la loro meta: che attraverso loro sia premiata la tenacia e la resistenza infinita di un intero popolo, di milioni di persone cui è stato impedito di restare nelle proprie case, cui sono state inflitte ingiuste e incomprensibili sofferenze e lutti a non finire.