Strano Paese l’Italia. Quello in cui si viene uccisi nei campi, lavorando al nero per 4 euro all’ora, quello in cui i salari sono i più bassi in Europa – dal 1990 hanno visto perdere progressivamente potere d’acquisto mentre nel resto del continente, almeno in parte, crescevano –  quello in cui il lavoro nero è la normalità, in cui i contratti di categoria dichiarati incostituzionali, in quanto non garantiscono una vita decente sono tanti. Il Paese da cui scappano tanto autoctoni che migranti perché non si intravvedono prospettive di futuro, perché anche le alte qualifiche, nel settore pubblico, sono precarie e mal retribuite, quello in cui se lavori a Milano – ma l’esempio vale per molte altre città – anche lo stipendio sicuro come quello da insegnante o da autista di autobus non sono sufficienti a pagare un affitto.

Secondo l’Istat sono almeno 5,7 milioni le persone in Italia che vivono in condizioni di povertà assoluta. I parametri per definire tale condizione variano da territorio a territorio, ma si rientra in questa fascia se non si può provvedere ad almeno 7 delle 13 voci che caratterizzano i bisogni fondamentali: alloggio, cibo, istruzione, cure sanitarie, igiene, riscaldamento ecc… Un’altra area della popolazione vive in una sorta di limbo chiamato “povertà relativa”, di cui fanno parte molte persone che, anche se occupate, percepiscono un salario insufficiente. Uno strumento, per quanto da perfezionare, per attenuare tale divario era stato introdotto con il cd Reddito di cittadinanza. La campagna politica e mediatica condotta contro tale misura –  dalla caccia a chi lo percepiva senza averne diritto, all’immagine di persone che sceglievano il divano rispetto al lavoro, ai costi pagati da chi invece fatica –  ha facilmente permesso la sua eliminazione. Il RdC andava migliorato, ma abrogarlo è stato un vero e proprio crimine sociale che ha ulteriormente abbassato il potere di far valere il proprio lavoro al momento dell’assunzione. I bonus che verranno elargiti, forse a settembre, sono elemosina, ma non rispondono alla necessità di una modifica strutturale. E allora perché non fare ciò che viene fatto in numerosi Paesi UE? Perché stavolta il dogma “ce lo chiede l’Europa” non deve valere?

Quello che occorre introdurre anche da noi è un salario orario minimo garantito, nel rispetto dei contratti di categoria. Rifondazione Comunista, con Unione Popolare, ha presentato mesi fa, il 28 novembre 2023, circa 70 mila firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che chiede di introdurre tale misura. La proposta è semplice: almeno 10 euro all’ora, indicizzati in base al tasso di inflazione e pagati dalle aziende. In questa calda mattina di fine luglio, un’ampia delegazione di Rifondazione Comunista si è recata in Senato per consegnare una lettera a tutte/i componenti della decima commissione, dove la proposta di legge  è ferma, per chiedere di avviare l’esame in tempi celeri.

“È molto grave che i partiti presenti in Parlamento tengano chiusa la proposta di legge in un cassetto invece di discuterla e di confrontarsi con i proponenti” hanno dichiarato il Segretario nazionale Maurizio Acerbo e il responsabile lavoro Antonello Patta. “Eppure l’Italia è il Paese dei bassi salari e del lavoro povero, con milioni di lavoratrici e lavoratori che ricevono retribuzioni che li collocano sotto la soglia di povertà. In vari casi sentenze della magistratura hanno evidenziato questa aperta violazione dell’art 29 della Costituzione. Oggi, a distanza di sette mesi dalla consegna delle firme, dobbiamo constatare con amarezza che la discussione della proposta di legge non è stata nemmeno calendarizzata nella commissione, mentre a termini di regolamento avrebbe dovuto essere consegnata alla discussione dell’aula del Senato entro 90 giorni”.

Gli esponenti di Rifondazione Comunista hanno annunciato che presto torneranno davanti al Senato a esigere quelle risposte di cui il Paese ha bisogno.