L’Italia, tra i 5 principali paesi europei, ha il dato peggiore per quanto riguarda l’evasione dell’Iva. Nonostante i progressi registrati nel 2022, con una riduzione del gap Iva dal 21,5% del 2021 al 10,8%, il divario rimane il più alto rispetto a Germania, Francia, Spagna e Olanda. L’Italia ha un gettito potenziale di 135,58 miliardi di € contro 120,98 miliardi effettivamente riscossi, e un gap di 14,6 miliardi.
È quanto evidenzia il Centro studi di Unimpresa, secondo il quale, confrontando il dato italiano con quello della Germania, emerge una disparità significativa. Infatti, la Germania ha un gap Iva del 2,8%, con un gettito potenziale di 266,85 miliardi di € e 259,39 miliardi effettivamente riscossi e un gap di 7,4 miliardi. Anche la Francia, pur avendo avuto problemi in passato, ha ottenuto risultati migliori dell’Italia, tant’è che buco Iva francese è sceso dall’8,5% al 4,9% nel 2022, con un gettito potenziale di 194,28 miliardi di € e 184,73 miliardi effettivamente riscossi e un ammanco di 9,5 miliardi. La Spagna rappresenta, invece, un vero e proprio caso virtuoso, avendo ridotto l’ammanco Iva dal 5,5% allo 0,8%, con un buco di appena 660 milioni: gettito potenziale di 82,91 miliardi di € e 82,25 miliardi effettivamente riscossi. Se si allarga il confronto ad altri tre paesi medi dell’Unione europea, l’Italia risulta seconda solo alla Grecia in termini di inefficienza nella raccolta dell’Iva. Quest’ultima, con un gap del 17,8% e un gettito potenziale di 18,17 miliardi di € contro 14,94 miliardi riscossi, continua a lottare con gravi problemi strutturali che ostacolano la piena efficacia delle sue politiche fiscali.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, che ha elaborato dai della Corte dei conti, i dati relativi al 2022 sul gettito Iva in Europa mostrano significative differenze tra i vari paesi, sia in termini di gettito potenziale che di gettito effettivamente riscosso. La classifica dei paesi sulla base del gap IVA mostra notevoli disparità. Il totale per tutti i paesi considerati mostra un gettito potenziale di 1.136,38 miliardi di €, con un gettito riscosso di 1.075,78 miliardi di €, generando un gap complessivo di 60,60 miliardi di €, pari al 5,3%. Questo dato rappresenta un miglioramento rispetto all’anno precedente, indicando progressi nella riduzione delle perdite fiscali dovute al gap IVA. Nel ranking sull’evasione di Iva, al primo posto si trova la Romania, con un gap del 36,7%. Con un incasso potenziale di 24,51 miliardi di € e un gettito riscosso di soli 15,51 miliardi di €, il gap assoluto ammonta a 9,00 miliardi di €. Seguono Malta con un divario del 25,6%, corrispondente a 0,35 miliardi di € su un gettito potenziale di 1,35 miliardi di €, e la Grecia con un gap del 17,8%, pari a 3,23 miliardi di € su un gettito potenziale di 18,17 miliardi di €. La Lituania presenta un gap del 14,5%, con un gettito potenziale di 5,48 miliardi di € e un gettito riscosso di 4,69 miliardi di €, generando un gap di 0,79 miliardi di €. L’Italia, con un gap del 10,8%, segue al quinto posto. Il gettito potenziale italiano è di 135,58 miliardi di €, mentre il gettito riscosso è di 120,98 miliardi di €, lasciando un gap di 14,60 miliardi di €.
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Ma i “mali dell’Italia” non si fermano all’evasione dell’IVA. Ammonta a 68 miliardi di € il volume d’affari annuo riconducibile al lavoro irregolare e il 35% circa di questo valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa è ascrivibile alle regioni del Sud. Le persone coinvolte nel nostro Paese dall’economia sommersa sono poco meno di 3 milioni e anche in questo caso è il Mezzogiorno la ripartizione geografica del Paese che presenta la percentuale più elevata: ovvero il 37,2% del totale. Tuttavia, il fenomeno ormai è esteso anche al Centronord ed ha una presenza record soprattutto nel settore dei servizi alle persone (colf, badanti, etc.). Il tasso di irregolarità di questo settore raggiunge il 42,6%. Al secondo posto scorgiamo l’agricoltura con il 16,8% e al terzo le costruzioni con il 13,3%. E’ quanto è emerso da un’analisi recente condotta dall’Ufficio studi della CGIA.
La quota più elevata del lavoro prodotto dal lavoro irregolare, pari all’8,3%, interessa la Calabria. Seguono la Campania con il 6,9%, la Sicilia con il 6,6% e la Puglia con il 6,2%. La media nazionale è del 4,2%. Dei 2.848.100 occupati non regolari stimati in Italia dall’Istat, 1.061.900 sono ubicati nel Mezzogiorno, 691.300 nel Nordovest, 630.000 nel Centro e 464.900 nel Nordest. Se calcoliamo il tasso di irregolarità, dato dal rapporto tra il numero degli irregolari e il totale occupati per regione, la presenza più significativa si registra sempre nel Sud e, in particolare, in Calabria con il 19,6%. Seguono la Campania con il 16,5% e la Sicilia con il 16%. Il dato medio Italia è dell’11,3%.
I 3 milioni di unità di lavoro standard (ULA) presenti in Italia che esercitano un’attività lavorativa in palese violazione delle norme fiscali, contributive e in materia di sicurezza, “provocano” un tasso di irregolarità del 12,7%. Gli altri servizi alle persone è il settore che “annida” il maggior numero di irregolari: precisamente poco più di un milione di ULA che dà luogo ad un tasso di irregolarità di questo settore pari al 42,6%. Tra i comparti più interessati dal lavoro nero scorgiamo l’agricoltura che, secondo l’elaborazione realizzata dall’Ufficio studi della CGIA, presenta un tasso di irregolarità del 16,8% (205.800 ULA). Di seguito scorgiamo le costruzioni con il 13,3% (220.200 ULA) e il commercio, trasporti, ricettivo con il 12,7% (691.700 ULA).
Al netto di chi lavora nei servizi di cura alla persona, va segnalato che per gli altri settori dove c’è più nero è più elevato anche il rischio incidenti nei luoghi di lavoro. Non va trascurato il fatto che in alcune aree del paese – sottolinea la CGIA– pezzi importanti dell’economia sono passati sotto il controllo delle organizzazioni criminali di stampo mafioso che agli imponenti investimenti economici hanno affiancato l’uso della violenza, delle minacce e del sequestro dei documenti per “conquistare” il favore di ampie masse di lavoratori, soprattutto stranieri. L’applicazione di queste coercizioni ha trasformato tante sacche di economia sommersa in lavoro forzato, facendo scivolare all’interno di questo girone infernale anche molti italiani che si trovavano in condizioni di vulnerabilità.
Qui i dati della ricerca dell’Ufficio Studi della CGIA di Mestre