Pur essendo presenti tra noi da diversi secoli, il popolo rom è una minoranza non solo emarginata, ma anche bollata con pregiudizi rivestiti da vero e proprio odio razziale.
Recentemente, l’Italia è stata condannata dal Consiglio d’Europa per le sue politiche discriminatorie nei confronti delle comunità rom perché il nostro Paese viola la “Carta sociale europea” per quel che riguarda i cosiddetti campi rom.
Il diritto all’abitare, come forma necessaria per la dignità della persona, è infatti prevista dall’articolo 31 della Carta sociale europea, nella quale si richiede agli Stati di proteggere le persone vulnerabili e di evitare che ci siano persone senza dimora, accompagnandole nel percorso di accesso alle abitazioni sociali. Il percorso verso l’integrazione sociale, lavorativa ed abitativa non è sempre facile.
Lo racconta a Interris.it Natascia Mazzon dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23) fondata da don Oreste Benzi.
Da quasi 20 anni Natascia si occupa del popolo rom, accompagnando nuclei familiari in percorsi di inclusione sociale; è responsabile di una casa di accoglienza in cui vivono anche madri detenute (o ex detenute) con i propri figli. E’ inoltre rappresentante dell’Apg23 presso l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) e presso l’Unione Europea.

L’intervista a Natascia Mazzon

Natascia, quanti sono i rom in Italia?
“In Italia si contano circa 180.000 rom dei quali più del 90% vive una piena integrazione mentre una minima parte appartiene alla fascia emarginata ed esclusa. Eppure questa percentuale minima sembra eletta dai media a rappresentare un popolo intero”.

Quando è nato l’impegno della Apg23 accanto ai rom?
“L’incontro della Comunità Papa Giovanni XXIII con il popolo rom risale al 1989 in seguito all’amicizia con una famiglia rom a Faenza (RA), e poi subito dopo con altre famiglie a Rimini e Forlì. Incontrarsi con le famiglie rom è stato il modo di conoscere questo popolo. Negli anni Novanta alcune sorelle consacrate di Comunità hanno vissuto per diversi anni nel campo rom di via Portogallo a Rimini”.

Cosa fate attualmente per i rom?
“La nostra mission è quella di rendere il popolo rom protagonista della propria inclusione.
Lo facciamo a due livelli: attraverso la rimozione delle cause che generano emarginazione e collaborando con persone Rom, offrendo una formazione specifica.
Questa è una grande novità perché molti dei consulenti e collaboratori esterni che ci aiutano nei percorsi formativi che organizziamo ogni anno sono rom.
Questi percorsi sono aperti a volontari, insegnanti, assistenti sociali, educatori… Il target sono coloro che vogliono comprendere meglio la cultura rom.
Ogni percorso formativo vede la partecipazione di 30-40 persone. Abbiamo iniziato raccontando la storia e la cultura rom.
Negli ultimi anni, ci siamo concentrati su aspetti educativi, genitorialità, rapporto con la sanità e la salute, ecc.
Il fatto che il 90% dei formatori siano rom rappresenta già di per sé un percorso formativo, perché i partecipanti vedono dei rom laureati, che abbattano gli stereotipi degli ‘zingari’ vestiti di stracci che vivono nei campi e chiedono le elemosina.
Invece, la maggior parte sono persone perfettamente integrate, qualificate, come docenti universitari, educatori, avvocati.
Ma pochi lo sanno. Vederli davanti cambia la percezione e abbatte il pregiudizio”.

Eppure esistono anche rom che chiedono l’elemosina in strada…
“Sì, sui 180mila rom che vivono in Italia, circa 40mila vivono ancora nei campi rom, in stato di emarginazione, nonostante il numero dei campi sia in costante diminuzione a causa delle nuove disposizioni europee e italiane, che portano al loro smantellamento.
Ma questo crea un serio problema di integrazione abitativa”.

Dove vanno ad abitare i rom usciti dai campi?
“Purtroppo non c’è una linea univoca di intervento per quanto riguarda l’integrazione abitativa. Nei comuni più virtuosi, sono stati inseriti in case di edilizia popolare, un lavoro che richiede anni.
Io, ad esempio, ho una casa di accoglienza per nuclei familiari rom a Savigliano, in provincia di Cuneo. Qui, il 70-75% dei percorsi di integrazione ha successo.
Purtroppo, come in tutte le cose, ci sono sempre persone che non riescono a farcela per vari motivi, ma i risultati generali sono confortanti.
Le persone hanno trovato un lavoro regolare e ora vivono una situazione stabile fuori dall’indigenza”.

Cosa è avvenuto nei comuni meno virtuosi?
“I rom sono stati scacciati dai campi e abbandonati al loro destino. Questo ha peggiorato di molto la loro situazione rispetto alla permanenza nel campo”.

Perché?
“Perché nei campi c’era almeno un po’ di supervisione ed era possibile intervenire con aiuti ed interventi educativi mirati. Ora sono allo sbando”.

Quali sono le difficoltà maggiori per queste persone a entrare nella società?
“Ci sono due difficoltà principali a seconda della condizione di partenza. Nel caso migliore, un rom con documenti in regola, al momento in cui si conosce la sua etnia tutte le porte si chiudono.
Lo sperimento con i miei nuclei, soprattutto le donne che mando a lavorare.
Così noi cerchiamo sempre di ‘de-etnicizzarle’ evitando di rivelare la loro etnia.
Per esempio, si dice: ‘Sono nato in Italia, i miei genitori sono serbi’ evitando la parola rom. Questo perché altrimenti nessuno le assumerebbe.
Ho persone che lavorano in fabbrica, hanno scontato pene in carcere, ma ora lavorano onestamente ma non hanno rivelato di essere rom altrimenti verrebbero emarginate”.

Qual è la seconda difficoltà?
“L’altra difficoltà è per chi non è riuscito a regolarizzarsi.
Un esempio è un bambino non registrato alla nascita per paura dei servizi sociali.
A un certo punto, vuole regolarizzarsi, studiare e lavorare, ma non può più farlo se ha superato i 23 anni.
In alcuni Paesi, ad esempio, dopo i 23 anni non è più possibile regolarizzarsi.
I costi per questi iter sono molto elevati, e senza possibilità economiche, queste persone restano condannate all’emarginazione.
La rimozione delle cause passa quindi attraverso la regolarizzazione e l’accesso al lavoro e alla casa”.

Il pregiudizio verso i rom in Italia è molto radicato?
“Sì. Secondo diversi report, gli italiani risultano essere tra i più razzisti d’Europa nei confronti dei rom.
La Comunità Papa Giovanni XXIII cerca di abbattere il pregiudizio attraverso la conoscenza.
I nostri corsi mostrano che i rom non sono solo quelli delle baracche, ma anche docenti universitari, educatori, avvocati.
Il degrado non è sinonimo di cultura Rom che invece si fonda su valori come l’onore, la purezza, il rispetto per gli anziani che hanno il compito di vigilare sulla comunità”.