Tel Aviv 1 luglio 2024: una grande manifestazione, brani dalle cronache di due giornaliste

“It is time”, è il tempo. A 268 giorni di distanza dal peggior massacro nella storia di Israele e dall’inizio della guerra più crudele su Gaza, il movimento per la pace ha deciso di lanciare un forte grido pubblico per chiedere l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di un processo politico per risolvere la questione palestinese. Oltre cinquanta organizzazioni e persone di entrambi i popoli si sono riunite nell’arena ‘Menora Mivtachim’ di Tel Aviv per “dare un’opportunità alla pace”. Ad accompagnarli, migliaia di persone da tutto il Paese» (Lucia Capuzzi, “L’Avvenire”, 02.07.2024).

La parola “pace” in Israele-Palestina non è mai stata banale, tanto più dopo il fallimento degli accordi di Oslo. Anzi, come hanno ricordato più voci e più volte dall’Arena, ci sono generazioni cresciute senza prospettiva di pace. Nei miei diversi viaggi in Galilea, sentivo proprio questo, il disagio nel parlare di “pace”, perché intere generazioni hanno imparato a non fidarsi della pace, a non credere nella pace, a non desiderare più la pace. Beffarda nel peggiore dei casi (come negli accordi di Oslo che si sono tramutati in un reticolato di porzioni di territorio spezzettato da check point, strade escludenti, e muri) o naïf nella migliore delle ipotesi». (Ilaria Olimpico, “Pressenza-Redazione Italia” 02.07.2024)

L’israeliano Maoz Inon e il palestinese Aziz Abu Sarah sono stati tra gli organizzatori dell’iniziativa di Tel Aviv; in Italia hanno acquisito di recente qualche notorietà, perché a maggio hanno preso parte all’Arena di Pace di Verona e lì hanno incontrato entrambi papa Bergoglio. Tra le parole che Maoz Inon ha pronunciato l’1 luglio è opportuno richiamarne alcune che portano a ragionare dei margini di possibilità e perciò di responsabilità singole e collettive: «Ora è il nostro momento di elaborare un’alternativa – ideologica e politica – che cambierà il discorso e creerà un futuro migliore per tutte e tutti». “Alternativa” può essere la base della trasformazione radicale del nostro stare al mondo, che costruisca riconoscimento reciproco tra parti non più avverse, bensì consapevoli dell’interdipendenza che ci lega tutte e tutti; “alternativa” è la parola-chiave per uscire dalla logica totalizzante di chi esercita il dominio e pretende che guerre, armi, uccisioni, soprusi, ingiustizie siano l’unica risposta possibile a chi non si adatta al mondo com’è.

Uno dei percorsi più nitidi e di più lunga durata che ha fatto crescere una simile prospettiva di libertà e autonomia rispetto ai poteri dati è, stato ed è tuttora, quello delle “Donne in Nero”, movimento che esordì a Gerusalemme il 2 gennaio 1988, quando otto donne israeliane ebree decisero di uscire all’aperto con un primo sit-in nei pressi di un incrocio di grande traffico, vestite di nero e in silenzio, mostrando cartelli su cui era scritto “Basta con l’occupazione” (dei Territori palestinesi dominati da Israele: Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza).

Un mese prima – all’inizio di dicembre del 1987 – era scoppiata a Gaza la “Prima Intifada” (o “rivolta”), un’insurrezione causata dall’uccisione di 4 palestinesi, morti nella loro auto in seguito allo scontro con un camion dell’esercito israeliano. Le proteste dilagarono in tutti i Territori Occupati ed ebbero un carattere sostanzialmente nonviolento; nella storia sono rimaste note con il nome di “Rivolta delle pietre”: i protagonisti furono infatti soprattutto ragazzini che tiravano sassi, non uomini armati, mentre da parte israeliana si scatenò subito una repressione sanguinosa e durissima.

Con gli abiti neri e il silenzio quel primo, piccolo gruppo di donne ebree intendeva esprimere un duplice lutto: in primo luogo, in solidarietà con le e i palestinesi, contro la cui sommossa il governo e l’esercito di Israele stavano agendo con una crudeltà spietata. In secondo luogo, le neonate “Donne in Nero” presero il lutto per testimoniare il dolore di vedere tanto profondamente stravolti e traditi i valori fondanti – o quelli che loro consideravano tali – dell’ebraismo: giustizia, eguaglianza, responsabilità sociale, generosità, pace, gentilezza…

Poche parole di una delle fondatrici possono dare il senso di quale fosse la visione “alternativa” perseguita dalle “Donne in Nero”. Edna Toledano Zaretsky, di Haifa, in un intervento del 1990, affermò: «Ho imparato la storia del mio popolo, e con l’apprendere della loro sofferenza ed agonia, sono diventata sensibile alle sofferenze umane dei Palestinesi».

Quasi 35 anni dopo, le “Donne in Nero” di Londra e Brighton hanno organizzato un incontro on line, invitando a prendervi parte donne palestinesi e israeliane. Tra queste anche Edna e alcune altre – sia cittadine ebree di Israele sia cittadine palestinesi – che alcune di noi conoscono da quando organizzammo a Gerusalemme nell’agosto del 1988 il “Campo di pace tra donne palestinesi, israeliane e italiane”. Rivedersi, anche solo su uno schermo, e soprattutto parlarsi ha dato emozioni profonde e ha rafforzato in tutte la determinazione a riprendere insieme percorsi che portino fuori dalle prospettive degli odi, distruzioni e guerre; tra la fine di agosto e l’inizio di settembre le “Donne in Nero” inglesi hanno messo in programma un incontro internazionale di tutta la rete, anche questo di necessità on line: viaggiare ormai costa troppo e gli anni pesano sempre di più. Dal 1993 abbiamo fatto convegni in ogni parte del mondo, da Novi Sad nella ex-Jugoslavia a Bogotà in Colombia, da Marina di Massa in Italia a Bangalore in India, da Valencia in Spagna a Città del Capo in Sudafrica e in tanti altri luoghi. Il prossimo incontro sarà incentrato sulla Palestina e su Gaza: la responsabilità che avvertiamo come ineludibile ora è infatti quella di fare innanzi tutto ogni sforzo pratico e teorico per contribuire a fare sì che le donne e gli uomini di tutte le età, le bambine e i bambini palestinesi abbiano innanzi tutto la possibilità di sopravvivere alle brutalità e ai massacri cui sono sottoposte/i da decenni, non certo solo dal 7 ottobre 2023. Non agire così significherebbe farsi complici delle stragi e delle torture, delle vessazioni e delle ingiustizie: invece, in quanto persone convinte dei pieni diritti di ogni persona e ogni popolazione alla propria autodeterminazione, è nostra responsabilità operare perché si rafforzi il sumud, la capacità palestinese di resistere e riaffermare di continuo la propria volontà di autonomia. Così come in quanto donne, femministe e pacifiste, intendiamo dare sostegno alla ricerca di “liberazione e libertà” in cui sono impegnati da decenni i movimenti delle donne palestinesi.

Elisabetta Donini – Donne In Nero