Dopo i “successi” vantati dal governo Meloni sulla riduzione delle traversate via mare nel Mediterraneo, mentre vengono alla luce gli orrori al confine tra Libia e Tunisia seguiti alla stipula del Memorandum UE-Tunisia e le Nazioni Unite denunciano i crimini commessi dalle milizie affiliate al governo provvisorio di Tripoli, sono ripresi con intensità crescente gli arrivi a Lampedusa, anche mille persone in 24 ore.

Fatti che non si possono nascondere dietro il segreto militare, anche perché la Guardia costiera, in base al Piano SAR nazionale del 2020, ha precisi obblighi di comunicazione periodica degli interventi di soccorso che opera. Come non si possono nascondere le fosse comuni piene di corpi di migranti abbandonati nei deserti della Libia.

Su tutto questo, come sulla partecipazione italiana alla Conferenza sulle migrazioni a Tripoli, in calendario il 17 luglio – con pochissime eccezioni, tra le quali Sergio Scandura, corrispondente per il Mediterraneo di Radio Radicale, il Manifesto, Fabio Greco dell’AGI, e Angela Caponnetto di RAI News – i media non danno notizie.

Le principali testate giornalistiche italiane non tengono conto neppure dei lanci di agenzia che propagandano l’impegno del governo per rafforzare la collaborazione con le diverse autorità libiche.

Come si apprende dall‘agenzia NOVA, “La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si recherà mercoledì 17 luglio a Tripoli, in Libia, per partecipare al Trans-Mediterranean Migration Forum (Tmmf), una conferenza sulla lotta alle migrazioni illegali organizzata dal Governo di unità nazionale (Gun) del primo ministro Abdulhamid Dabiaba”. Secondo la stessa fonte, “In un documento in lingua araba di 12 pagine, visto e tradotto da Nova, l’esecutivo nordafricano si prefigge l’obiettivo di ‘garantire un coordinamento integrato sotto un’unica egida’ tra i paesi di origine, di transito e di destinazione dei migranti. Ad accompagnare Meloni ci sarà anche il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.”

I principali mezzi di informazione italiani tacciono completamente anche su questo evento dai risultati assai dubbi, dopo la precedente visita di Giorgia Meloni in Libia lo scorso maggio, tanto da nascondere il fallimento globale della strategia della Meloni e di Piantedosi sul piano delle relazioni internazionali, fondamentali per gestire quelli che definiscono “flussi migratori”.

Essi in realtà consistono nella mobilità forzata imposta a decine di migliaia di persone che non hanno più speranze di sopravvivenza e di rispetto dei diritti fondamentali, tanto nei paesi di origine, quanto nei paesi di transito nei quali si trovano bloccati per effetto degli accordi stipulati dai governi di questi paesi con l’Unione Europea, o con singoli Stati membri.

Accordi bilaterali in base ai quali, pure a regimi violenti e corrotti, in Tunisia ed in Libia, come confermano i rapporti ONU, stanno arrivando da Roma e da Bruxelles milioni di euro, nel quadro delle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, sulle quali sembrerebbe regnare un accordo generale, malgrado le spaccature emerse dopo le ultime elezioni europee.

Se i partiti di destra continuano ad utilizzare le politiche migratorie di chiusura e di criminalizzazione per distogliere l’attenzione del loro elettorato dai fallimenti nel campo delle politiche sociali, la eterogenea ammucchiata dei partiti di centro-sinistra, tanto in Italia che a livello europeo, non ha ancora trovato il coraggio di una proposta politica veramente alternativa, e si devono nascondere precedenti accordi di esternalizzazione, come il Memorandum Italia-Libia concluso nel 2017 da Gentiloni e Minniti.

Oggi, quello che succede tra le coste libiche e Lampedusa è conseguenza diretta di quel Memorandum e del Protocollo aggiuntivo del 2007, firmato da Amato ai tempi del secondo governo Prodi, e quindi della spinta italiana nel 2017, con il governo Gentiloni, per la istituzione di una zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”.

Anche se è universalmente riconosciuto, in particolare dalle Nazioni Unite, che la Libia non ha una consistenza territoriale controllata da un unico governo, che in Libia nessuna autorità statale garantisce i diritti umani sistematicamente violati dai trafficanti collusi con le milizie, e che la Libia non garantisce neppure oggi porti sicuri di sbarco.

Tanto che i giudici italiani hanno condannato chi ha riconsegnato ai libici naufraghi soccorsi in acque internazionali (caso ASSO 28). E i tribunali civili italiani hanno sospeso o annullato i provvedimenti di fermo amministrativo imposto alle navi delle ONG per non avere obbedito ai comandi delle motovedette libiche, mentre la Libia rimane ancora priva di un unico centro di coordinamento dei soccorsi (MRCC), che sarebbe un requisito essenziale per il riconoscimento effettivo di una zona SAR (di ricerca e salvataggio) davvero “libica”.

Ma quello che risulta illecito viene invece consentito quando si fanno intervenire i libici con mezzi donati ed assistiti dall’Italia, e con la supervisione di Frontex che in questo ultimo anno ha aumentato la sua presenza nel Mediterraneo centrale, aggiungendo agli assetti aerei già presenti, alcune unità navali molto veloci, che sembrano rivolte, come i mezzi della Guardia di finanza, ad attività di contrasto dell’immigrazione irregolare, piuttosto che ad attività di ricerca e salvataggio, per le quali occorrerebbe una grande missione europea, come fece l’Italia nel 2014 con l’Operazione Mare Nostrum.

Ancora in questi giorni, nel silenzio delle istituzioni, molti naufraghi hanno rischiato di annegare in vista di Lampedusa, e un cadavere è stato recuperato sugli scogli dell’isola, su tre persone che risultavano disperse dopo avere fatto naufragio la scorsa domenica. E un secondo cadavere è stato recuperato sugli scogli di Lampedusa il giorno successivo. Ma le uniche notizie che passano riguardano gli arresti di presunti scafisti.

Rimane il grande buco nero della zona SAR maltese, di cui nessuno parla, ma che costituisce una larga fascia del Mediterraneo centrale nella quale si sono diradati gli interventi di soccorso, dopo l’allontanamento delle navi umanitarie, con la prassi dell’assegnazione di porti di sbarco sempre più lontani, e dove si è pure limitato l’impiego dei mezzi della Guardia costiera italiana.

La sovrapposizione tra le zone SAR italiana e maltese legittima ritardi negli interventi e scarico di responsabilità, mentre si permettono incursioni da parte delle motovedette libiche. Argomenti che non si devono far conoscere alla opinione pubblica, che deve solo constatare i successi del governo desumibili dalla riduzione degli arrivi dalla Tunisia e (in parte minima) dalla Libia.

Ad altri conviene nascondere la ripresa degli sbarchi su Lampedusa perché si conferma per l’ennesima volta che l’assegnazione di porti vessatori alle navi del soccorso civile che continuano ad operare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale non riduce gli arrivi, ma aumenta soltanto il numero delle vittime, e comporta il sovraffollamento del centro Hotspot di Lampedusa, come si sta verificando ancora in questi giorni.

Lo conferma il lavoro assiduo e documentato di Sergio Scandura, dell’Osservatorio OSINT di Radio Radicale. Nessuno intanto ha dato spiegazioni per i dossieraggi subiti dai giornalisti a margine del processo Iuventa a Trapani, a suo tempo al centro dell’attenzione mediatica, e neppure oggi si scrive di una sentenza di archiviazione che ha svelato i torbidi intrighi tra autorità di polizia, pezzi di magistratura ed agenti sotto copertura infiltrati per criminalizzare i soccorsi umanitari.

Oggi si vuole ridurre al silenzio o alla emarginazione quelle poche voci libere perché smentiscono i falsi teoremi, come il Piano Mattei per l’Africa, e le dichiarazioni trionfalistiche della Meloni e dei suoi ministri.

Il silenzio sugli sbarchi sulle coste italiane giova pure a chi adesso siede al vertice del Ministero delle infrastrutture e deve affrontare un processo per avere vietato ad una ONG nel 2019 (caso Open Arms) un singolo sbarco a Lampedusa, e prima addirittura l’ingresso nelle acque territoriali. Mentre oggi i mezzi della Guardia costiera, che da quel ministero dipendono, si trovano costretti a chiedere l’aiuto delle navi del soccorso civile, per portare a terra naufraghi soccorsi in acque internazionali, dove sembra che le direttive ministeriali abbiano limitato gli interventi delle unità militari italiane.

Adesso si cerca di utilizzare la nuova zona SAR tunisina di recente istituzione, parzialmente sovrapposta alla zona SAR maltese, per sottrarre alle autorità italiane obblighi di soccorso, delegati in questo modo alle autorità tunisine, su una rotta, dalla Tunisia verso la Sardegna, che è stata caratterizzata da naufragi nascosti, scoperti solo dopo il ritrovamento di cadaveri nel mare delle isole Eolie, addirittura mesi dopo l’annegamento, in avanzato stato di decomposizione.

Lo stesso silenzio conviene anche a chi ha investito tutta la sua autorità nel Protocollo Italia-Albania, che dovrebbe essere attuato a partire dall’inizio di agosto, come ha promesso Giorgia Meloni, ma che nelle attuali circostanze di fatto, per la mancata apertura del centro di detenzione di Gjiader, ed alla luce dei problemi giuridici sulle procedure accelerate in frontiera, che si vorrebbero “esportare” in Albania, malgrado siano ancora all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea, si avvia a diventare l’ennesima promessa elettorale mancata di un governo ormai privo di qualsiasi legittimazione morale, dopo avere ristabilito rapporti di collaborazione con governi che non rispettano i diritti umani, oltre alla Libia ed alla Tunisia, basti pensare agli accordi con l’Egitto di Al Sisi, anche se responsabile di deportazioni collettive in Sudan.

Non mancano neppure gli attacchi informatici come quelli scatenati contro l’agenzia di giornalismo d’inchiesta IRPIMEDIA, che ha documentato le espulsioni collettive di migranti dalla Tunisia in Libia. Il sito con informazioni preziose su questi crimini contro l’umanità è rimasto inaccessibile per giorni.

Anche il sito AFRICA ExPress che aggiorna costantemente sulla situazione di gravissime violazioni dei diritti umani nei paesi africani con i quali l’Italia sta negoziando, anche per conto dell’Unione europea, è costantemente esposto ad attacchi informatici.

In molte redazioni giornalistiche sono arrivate le lamentele del Viminale, per la pubblicazione di notizie che si volevano nascondere all’opinione pubblica, e si diffondono censura ed autocensura. Forme diversamente violente, talvolta apparentemente burocratiche, di attacco alla libertà di informazione ed al diritto di cronaca.

Resteremo in pochi, forse, ma proseguiremo l’attività di monitoraggio sulle continue violazioni degli obblighi di soccorso nel Mediterraneo centrale, e sugli abusi subiti dalle persone migranti intrappolate nei paesi di transito che hanno concluso accordi con il governo italiano e con l’Unione europea.

Un impegno necessario non solo per dare memoria alle persone che sono morte o sono disperse, e fare luce sulle responsabilità delle politiche di abbandono in mare, o nei deserti africani, dove le vittime potrebbero essere anche superiori a quelle che si riesce a scoprire sulla rotta del Mediterraneo centrale, ma anche per salvaguardare il diritto all’informazione e il rispetto delle regole delle democrazie costituzionali europee, riassunte nella formula di “Stato di diritto” (Rule of law), che oggi sembra diventare un enunciato eversivo.

Tanto che non mancano attacchi verso quella parte di magistratura che, con le sue sentenze, sarebbe troppo vicina alle posizioni delle odiate Organizzazioni non governative, creando forse problemi a quegli esponenti di governo che, con il supporto della giurisprudenza amministrativa, ritengono ancora che un decreto ministeriale possa prevalere su una norma costituzionale, sul diritto dell’Unione europea o su una Convenzione internazionale.

Anche su questo sarebbe opportuno che i nuovi eletti al Parlamento europeo per le formazioni di centro-sinistra e i rappresentanti dei partiti di opposizione a Roma riprendano la parola, perché in questi giorni, anche da parte loro, si registra un silenzio su quanto sta avvenendo nel Mediterraneo centrale che non corrisponde agli impegni che hanno assunto in campagna elettorale.

dal sito di ADIF

A chi dà fastidio l’informazione sui soccorsi nel Mediterraneo ?