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La Carovana Abriendo Fronteras conclude l’ottava campagna di contro-informazione sulle politiche migratorie dell’Unione Europea

Dal 2016, la Carovana denuncia il razzismo e la violenza istituzionale messe in atto nella regolazione dei flussi migratori, nel tentativo di mettere al centro del dibattito pubblico la questione globale del ‘diritto di migranza’ per la libera circolazione delle persone. Una iniziativa – quest’ultima campagna-  durata 12 giorni, volta a far conoscere e rendere visibile “la situazione insostenibile dei migranti e dei rifugiati come conseguenza delle politiche migratorie dell’UE”  

La Carovana Opening Borders sta acquisendo una prospettiva internazionale e negli ultimi 5 anni è stata organizzata in collaborazione con Carovane Migranti, un’associazione italiana che viaggia accompagnata da persone che, con le loro esperienze di frontiera, ci permettono di connettere la realtà migratoria del Mediterraneo e della costa europea dell’Atlantico, con la realtà migratoria centroamericana. La violazione dei diritti umani nell’Unione Europea e in America è sempre più grave, l’orientamento delle politiche sull’immigrazione è sempre più repressivo e si traduce in violenza e razzismo istituzionale che alimentano l’aumento della xenofobia e del neofascismo. In quasi 300 persone, provenienti dai territori dello Stato spagnolo soprattutto e dall’Italia, con la presenza di colleghi di Colombia, Messico, Brasile, Camerun, Afghanistan e territori balcanici, Croazia, Serbia, Bosnia, Montenegro, abbiamo avuto l’opportunità di condividere il vissuto attuale nei territori di origine, l’attraversamento della frontiera e l’arrivo nei territori ai quali si chiede accoglienza. Abbiamo condiviso esperienze, proposte e preoccupazioni. Durante il percorso della Carovana abbiamo potuto fare memoria storica come contestualizzazione, collegamento e comprendere l’attualità dei territori e la geopolitica. Abbiamo ripercorso il passato dei Balcani, la guerra e l’esperienza dell’ex Jugoslavia con l’aiuto di storici, pacifisti, antimilitaristi e Donne in Nero, nonché attivisti di frontiera. Abbiamo visitato l’ex campo di concentramento, la Risiera di San Sabba, che nel settembre del 1943, durante la seconda guerra mondiale, le camicie nere fasciste trasformarono in un campo di detenzione, un campo di transito per la deportazione e l’eliminazione dei prigionieri di guerra e dei civili. Fu utilizzato anche come campo di concentramento e sterminio, magazzino dei beni materiali requisiti e anni dopo, nel dopoguerra, come “centro di accoglienza” per i profughi. Curiosa coincidenza. Oltre a sensibilizzare attraverso il contesto storico, nella Carovana denunciamo il business della guerra e della militarizzazione dei confini: in questa occasione e direttamente in un’azione che abbiamo realizzato presso la Base Militare NATO di Aviano, in Italia. Questa base fu spostata qui anni addietro, nel ’92, quando la base aerea di Torrejón fu chiusa in Spagna. Ha iniziato le operazioni durante la guerra in Bosnia e la guerra del Kosovo. La base NATO è responsabile della produzione, dell’esportazione e della fornitura di armi, nonché dell’aumento delle spese militari e delle bombe nucleari. In questo contesto, dalla Carovana abbiamo compiuto un’azione in segno di rigetto verso questa base sedendoci davanti ad essa, formando lo slogan “NO NATO” dopo che alcuni colleghi di gruppi antimilitaristi hanno fatto discorsi di contestualizzazione e denuncia.

Per conoscere maggiori dettagli sulla carovana che quest’anno ha viaggiato attraverso i Balcani potete consultare questo  sito web \ leggi la versione in lingua originale dell’articolo curato dal collettivo Legerin Azadi su Anfespanol

 

Crescere sotto le bombe: «Nessuno parla più di futuro». Il danno irreparabile alla salute mentale dei bambini a Gaza. Intervento della psicologa Valeria Colasanti

Già prima della crisi umanitaria odierna si stima che più di 543,000 bambini della Striscia avessero bisogno di assistenza psicologica. Ora ci si aspetta che tutti la necessitino: «I continui conflitti e bombardamenti hanno ulteriori conseguenze psicologiche nella popolazione infantile di Gaza». La traumatizzazione dei bambini palestinesi non è quindi confinata a partire dal 7 ottobre 2023: «il massacro odierno a cui è sottoposta la popolazione di Gaza è diverso». Secondo la psicologa Valeria Colasanti si tratta di un trauma «collettivo, continuo e intergenerazionale»

Intervistata dal manifesto, la psicologa Valeria Colasanti, che fa parte di sanitari per Gaza, movimento spontaneo di sanitari italiani nato a dicembre 2023 in risposta al massacro della popolazione palestinese, riporta la definizione di salute mentale dell’Oms come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o infermità». «Fondamentale è quindi la possibilità di partecipare a pieno alla vita di comunità e di esprimere le proprie potenzialità – ci spiega la psicologa – Ciò non è possibile a Gaza: scuole, università, quartieri sono distrutti, la famiglia e gli amici muoiono sotto le bombe. Si tratta di un attacco alla salute mentale collettiva che porta alla distruzione psicologica completa». Nel rapporto Intrappolati e Feriti: l’aggravarsi del danno mentale inflitto ai bambini palestinesi di Gaza pubblicato a gennaio, Save The Children (Stc) sottolinea che queste condizioni rappresentano «rischi da manuale di un danno mentale duraturo per i bambini di Gaza». Medici del Mondo stima che, già prima della crisi umanitaria odierna, 543mila bambini a Gaza avevano bisogno di supporto psicologico. Secondo uno studio del 2011 di Abdel Aziz Thabet e Panos Vostanis, professori di psichiatria infantile rispettivamente all’università palestinese Al-Quds e a quella inglese di Leicester, il 40,6% dei bambini gazawi tra i 7 e i 12 anni accusava sindrome post traumatica da stress (Ptsd) da moderato a severo in seguito alla prima Intifada (1987-1993), in cui i soldati e i coloni israeliani uccisero almeno mille palestinesi. Colasanti spiega che la Ptsd è la patologia più comune rilevata nei bambini in seguito alle varie offensive contro Gaza. «Uno degli effetti principali della Ptsd nei bambini palestinesi della Striscia, che vengono sottoposti a traumi continui, è la riduzione della capacità di superare trauma. Il sistema che risponde allo stress e agli stimoli paurosi (l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, anche detto asse della paura) è costantemente iperattivo, non più funzionale ma patologico. La Ptsd incide inoltre anche sul sonno e sulla memoria». Un ulteriore aspetto della Ptsd è la sua possibile trasmissione intergenerazionale. Colasanti riporta che uno studio condotto dal Mount Sinai Hospital di New York sui sopravvissuti all’Olocausto «ha rilevato delle alterazioni genetiche collegabili all’ansia e allo stress. L’ipotesi, che poi andrà verificata, è che le generazioni future gazawi potrebbero avere disturbi dell’umore e dell’ansia ereditati dai traumi a cui i loro genitori sono sottoposti ora».

leggi su  ilManifesto l’articolo integrale

 

Prosegue la protesta degli agricoltori del Punjab: «L’India è il secondo produttore di grano al mondo dopo la Cina, con almeno 110 milioni di tonnellate, di cui 15% prodotti solo dal Punjab, che copre solo 1,5% della superficie del Paese»   

L’abbondanza di acqua e la terra particolarmente fertile hanno trasformato questo piccolo Stato, con l’arrivo della Rivoluzione Verde negli anni ’60 nel “Cestino del Pane dell’India”

Gli agricoltori indiani del Punjab sono in sit-in permanente da oltre 5 mesi, dal 13 febbraio, quando circa 25.000 contadini di dodici di sindacati si sono diretti verso Delhi. La loro marcia si è fermata al confine tra Punjab e Haryana, a Shambhu, dove sono stati bloccati dalla polizia dell’Haryana. La manifestazione pacifica si è trasformata in un teatro di guerra in cui, il 21 febbraio, un agricoltore di 22 anni colpito da un candelotto di gas lacrimogeno alla testa ha perso la vita. Lo scorso 10 luglio le Alte Corti del Punjab e dell’Haryana hanno dato 10 giorni di tempo al governo dell’Haryana per rimuovere il blocco, ma il governo dell’Haryana ha fatto ricorso. L’udienza, prevista per il 22 luglio, è stata rinviata, lasciando ancora nel limbo la situazione. Ashok Balhara, presidente del sindacato Kisan Mazdoor Sanghatan, spiega che le richieste della protesta sono l’applicazione per legge del sistema del Minimo Prezzo Supportato (MSP) a tutti gli agricoltori indiani e su un totale di 23 tipi di raccolti, l’aumento del MSP del 50% e l’annullamento di tutti i debiti degli agricoltori con lo Stato. Il sistema dell’MSP assicura l’acquisto delle produzioni da parte del Governo, qualora sul mercato vengano proposti prezzi inferiori al prezzo minimo stabilito. Ogni anno il governo pubblica gli MSP per 23 coltivazioni, ma vengono applicati solo a riso e grano e solo negli Stati del Punjab, dell’Haryana e nell’ovest dell’Uttar Pradesh: in tutta l’India solo il 6% degli agricoltori indiani usufruisce dell’MSP. Il settore agricolo è estremamente fragile: il 50% della popolazione dipende dall’agricoltura, che, però, contribuisce solo al 17,5% del PIL del Paese e l’85% degli agricoltori è marginale e possiede pochi acri di terra (un acro equivale a 0,4 ettari) e un bracciante guadagna dalle 400 alle 700 rupie al giorno (tra i 4,5 € e gli 8 € al giorno). Il prezzo pagato in termini ambientali e sanitari è stato, però, estremamente elevato. L’applicazione del MSP ha favorito una coltivazione massiccia quasi esclusivamente di grano e riso, in un regime praticamente monocolturale. La falda è ampiamente sovrasfruttata; l’impoverimento dei suoli e l’aumento della resistenza di parassiti ai pesticidi hanno spinto gli agricoltori ad incrementare l’uso di fitofarmaci, che, risalendo la catena alimentare, sono diventati una delle cause principali dell’incremento vertiginoso di casi di cancro. Oggi in Punjab l’incidenza è di oltre 101 casi ogni 100.000 abitanti per gli uomini e 127 per le donne, contro una media nazionale di 80.

Leggi articolo di Claudio Avella su  Pagine Esteri

 

L’accumulazione di capitale e il progetto neoliberista dell’autonomia. Nel “partito unico del nord” – da destra a sinistra – impera la retorica liberale: individualismo e frammentazione le due facce del nuovo capitalismo  

Neoliberismo e regionalismo alla Autonomia differenziata sono correlati. Essi sono due facce della stessa infame medaglia. Sfruttano la disparità di condizione delle soggettività come occasione per fomentare un meccanismo competitivo a cui solo i più meritevoli, dicono, potranno sopravvivere

L’Autonomia differenziata si presenta come un progetto di auto-affermazione, apparentemente innocuo e legittimo, di decentramento politico nella gestione di materie sociali, culturali, fiscali, amministrative che fanno carico alle esigenze specifiche di realtà locali, che si considerano avanguardia nello sviluppo del Paese. Questa è la retorica di Veneto e Lombardia, a trazione leghista, ma anche dell’Emilia-Romagna, a trazione PD. Ciò può apparire strano ad un primo sguardo, ma dobbiamo ricordare che la retorica antimeridionalista è trasversale ai partiti politici istituzionali, e in alcuni casi più subdola. Abbiamo infatti visto come la costruzione di una realtà omogenea identitaria e l’esclusione di una realtà altra tramite la sua delegittimazione siano parte integrante della strategia retorica di questo progetto politico. Tuttavia, intrecciata in modo indissolubile a questa retorica c’è una strategia economica invisibilizzata e pervasiva. L’Autonomia differenziata non è un processo di negoziazione di indipendenza dall’Italia, o dall’Europa, è un processo di autonomia interna che mira a mantenere intatta la forma dello stato-nazione – semmai a complicarla – per rimodellarne il tessuto economico e sociale. Dobbiamo quindi andare a vedere di che cosa si tratta a questo livello trasformativo. Questo processo di attribuzione propria di competenze statali, nonché il trattenimento a livello regionale di una serie di risorse ottenute tramite la tassazione a livello individuale su scala nazionale, costituisce un vero e proprio processo di accumulazione capitalistica. Riportando il caro vecchio Marx sulla scrivania, leggiamo ne Il Capitale che un processo di accumulazione è un processo attraverso il quale delle risorse comuni (territori, denaro, ma anche potere) sono accaparrate per fini privati da una classe di persone. In questo caso, si tratta di un processo che una classe di persone residenti nelle regioni a trazione imprenditoriale più spinta del Nord Italia vogliono intraprendere sottraendo al resto della comunità una serie di risorse che spettano loro per il principio di redistribuzione della ricchezza. Dobbiamo rovesciare il ragionamento leghista e piddino: non si tratta delle regioni che “producono di più” a cui va riconosciuto questo “merito” dando “quanto gli spetta”; si tratta invece delle regioni che, a causa di una trazione differenziale dell’economia nazionale mai davvero sanata dall’Unità d’Italia, producono una ricchezza che, nel rispetto del principio della solidarietà tra concittadini e concittadine che appartengono alla stessa comunità, va redistribuita verso chi ne ha più bisogno. Se il progetto politico di una comunità sostenuta da relazioni materiali, sociali e culturali, nel pluralismo e nella solidarietà fosse un obiettivo reale, come del resto la Costituzione stessa sancisce, il trattenimento di una parte della ricchezza (ri)prodotta da questa comunità da parte di alcuni costituirebbe una sottrazione vera e propria di risorse, a discapito della riuscita stessa del progetto della comunità. Ed è infatti allo smantellamento di progetti di solidarietà che le trasformazioni neoliberali della società stanno guardando.

da Dinamopress news – abstract de “L’autonomia differenziata è un progetto neoliberale” di Simone Villani

 

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