E’ iniziata la più grande denuncia congiunta degli ultimi anni nel mondo del lavoro degli Stati Uniti. La class action è stata attivata da 15.780 conducenti “indipendenti” di Amazon di vari Stati degli USA, rappresentati dallo studio legale Gibbs di San Francisco, che per anni ha raccolto dati sulla loro situazione lavorativa per preparare la causa.

Questi autisti appaltano il lavoro da Amazon e risultano impropriamente come indipendenti. La legge federale impone che il loro straordinario, dopo le otto ore di lavoro, debba essere pagato una volta e mezza la retribuzione oraria. Ma Amazon USA non ha mai pagato gli straordinari e assegna tabelle di consegne dei pacchi tali che la spesa per effettuarle spesso eccede la remunerazione. Amazon infatti assume gli autisti nell’ambito del suo programma “Flex”, pagando loro un importo fisso giornaliero, indipendentemente dalla distanza che percorrono o dal numero di consegne che effettuano. La benzina, l’assicurazione, l’usura degli pneumatici e delle auto, che sono di proprietà degli “appaltatori indipendenti”, dovrebbero essere coperti da un pagamento forfettario di 60 centesimi al miglio. Spese superiori possono essere rimborsate esibendo le singole ricevute, ma lo stress del lavoro fa sì che molti non riescano a raccogliere i documenti nei modi e nei tempi adatti per presentarle. Di conseguenza, “alcuni autisti hanno percorso migliaia di miglia”, senza essere pagati, ha precisato l’avvocato Steven Tindall, che segue la causa per lo studio legale Gibbs.

I singoli conducenti raramente fanno causa perché sarebbe troppo costoso mettersi contro un gigante come Amazon. In caso di controversie il contratto di appalto gli impone un arbitrato e pochi avvocati accettano questi casi individuali: anche se vincessero, essi richiedono tempi lunghissimi e, nella migliore delle ipotesi, compensano le spese legali.

La sorte di questi lavoratori è legata anche, con poche speranze, alla composizione del prossimo Congresso, di modo che prima o poi venga legiferato il cosiddetto Pro Act, Protecting the Right to Organize, una legge pro-lavoratori che ristagna da anni a Washington. Tale legge dovrebbe tra l’altro riclassificare gli “appaltatori indipendenti” come “dipendenti”, coperti dalle leggi statali e federali sul lavoro.

Riferendosi invece ai dipendenti veri e propri di Amazon USA, il sindacato indipendente Amazon Labor Union (ALU), che aveva vinto nel 2022, il primo negli USA, l’elezione sindacale in uno stabilimento di Amazon, il gigantesco centro logistico di Staten Island (New York) con 8.000 dipendenti, non ha raggiunto finora una discussione vera con la controparte e la sigla di un contratto collettivo. La melina aziendale blocca la trattativa e ha finito pure per logorare l’ALU. Questo dapprima ha perso una successiva elezione in uno stabilimento newyorkese poco distante dal primo sindacalizzato, poi ha visto crescere una spaccatura interna con la creazione di ALU Democratic Reform Caucus (un caucus è una corrente sindacale interna) che rivendica democrazia sindacale e posizioni più radicali. Nel luglio scorso, questo caucus ha presentato una denuncia al tribunale federale richiedendo l’elezione per gli organismi sindacali. La denuncia è stata accolta e il voto avverrà a luglio.

L’ALU si è affiliata al grande sindacato dei camionisti, che ha 1,2 milioni di iscritti, inserendosi così nella nascente grande campagna di sindacalizzazione lanciata dai Teamsters nell’ottica di creare un movimento nazionale dei lavoratori Amazon. Sarà l’ennesimo tentativo sindacale per entrare negli stabilimenti statunitensi di un’azienda in cui il lavoro è soggetto ad alti carichi, frequenti infortuni e accanita sorveglianza tecnologica.

M.Gruenberg, 15,780 Amazon drivers file pay grievances with the help of a pro-worker law firm, People’s World, 17.6