Dopo le dimostrazioni svoltesi durante il mese di marzo di fronte ai Parlamenti di 30 Stati degli USA, una partecipata manifestazione ha proseguito sabato 29 giugno a Washington l’iniziativa nazionale Poor People’s Campaign contro la povertà e i bassi salari (A Mass Poor People & Low-wage Workers’ Assembly and Moral March).

Attorno all’obiettivo di creare un movimento di massa che metta la povertà al centro dell’agenda politica, dando voce ai “senza voce”, Sindacati, Associazioni comunitarie e Chiese di varie confessioni (appartenenti al Consiglio Nazionale delle Chiese, che rappresenta oltre 30 milioni di cristiani) si sono ritrovati/e di fronte al Campidoglio di Washington.

Lo stesso luogo dove, nel maggio-giugno del 1968, centinaia di poveri issarono una tendopoli nell’ambito di un’iniziativa nazionale promossa da Martin Luther King e dalla Southern Christian Leadership Conference. Risultati tangibili allora non se ne raggiunsero, per due grandi motivi. Il primo, l’uccisione, nell’aprile precedente, di M.L.King a Memphis, che stava partecipando ad uno sciopero degli operatori ecologici e fu ucciso mentre iniziava a mettere in pratica il progetto di unire diritti civili e del lavoro, unificando neri, bianchi e latinos. Il secondo, che i problemi sociali sollevati avevano, e hanno, la necessità di essere affrontati dall’unità del movimento, che allora mancò, e da politiche sociali che portino ad un cambiamento radicale della struttura economica, ben difficile da ottenere, allora e oggi, dai governi statunitensi e nel sistema del profitto.

Le marce dei poveri hanno una lunga tradizione negli Stati Uniti: da quella del 1894, di cui Jack London scrisse nel libro La strada, a quelle del 1932, una delle quali dei reduci della Prima guerra mondiale, che chiedevano, in contanti e non in titoli di Stato, i soldi promessi ai soldati. Entrambe furono affrontate e disperse dall’esercito.

Gli obiettivi concreti della manifestazione del 29 giugno, illustrati nei 17 punti di un dettagliatissimo “programma di politica pubblica morale”, e da praticare con un’etica di non-violenza, sono i diritti (di lavoratori e lavoratrici, delle donne e del voto senza impedimenti), l’aumento e l’indicizzazione del salario minimo, scuole pubbliche di qualità e assistenza sanitaria accessibile a tutti, giustizia ambientale per le Nazioni dei nativi, trasferimento di spese militari ai bisogni interni, cessate il fuoco a Gaza e fine del genocidio in tutto il mondo, lotta contro il razzismo e cittadinanza agli immigrati.

L’appello per la manifestazione del 29 giugno afferma: “Crediamo che le persone non dovrebbero vivere o morire per la povertà nella nazione più ricca che sia mai esistita. Incolpare i poveri e affermare che gli Stati Uniti non hanno un’abbondanza di risorse per superare la povertà sono false narrazioni utilizzate per perpetuare lo sfruttamento economico, l’esclusione e la profonda disuguaglianza”. Nello stesso appello si denunciano “i mali interconnessi del razzismo sistemico, della povertà, della devastazione ecologica, del militarismo e dell’economia di guerra e della narrazione morale distorta del nazionalismo religioso”.

In queste ultime parole si legge lo scontro religioso che attraversa il popolo degli Stati Uniti. Un Paese dov’è quasi impossibile per un politico dichiararsi ateo o agnostico e il ruolo delle multiformi Chiese è assai rilevante. Mentre molte iniziative sindacali e sociali trovano appoggio di varie istanze religiose (come si è ulteriormente notato nell’iniziativa contro la povertà), la destra evangelica (uno dei pilastri del consenso di Trump, considerato paladino dei “veri valori americani”) brandisce la concezione del successo individuale come segno della predestinazione per rifiutare aggressivamente qualsiasi politica di sostegno dei poveri e dei senza lavoro (oltre ad avversare i diritti civili).

Politiche che sono auspicate invece dagli organizzatori della marcia, che appartengono soprattutto all’area del Democratic Party, i quali si sono posti l’obiettivo, non facile ad onor del vero, anche per non grande presenza di interlocutori politici, di votare i candidati che appoggino le loro istanze, portando 15 milioni di lavoratori a basso salario ad iscriversi alle liste elettorali. Iscrizione che non è automatica negli Stati Uniti ed è soggetta ad ostacoli burocratici razzisti, che, da sempre e ancor oggi, soprattutto negli Stati del Sud degli USA, impediscono nei fatti il diritto di voto di ampi settori delle minoranze. Lo slogan ricorrente nella manifestazione è stato: “We are the Swing Vote”, il voto decisivo, parafrasando gli “Swing State”, gli Stati in bilico tra i due maggiori Partiti, nei quali si svolge la gran parte della campagna elettorale statunitense.

La presenza alla manifestazione era eterogenea ma in maggioranza di neri. Dal palco, coordinati dal ministro protestante William Barber, famoso attivista contro la disuguaglianza razziale ed economica, hanno parlato rappresentanti di varie Chiese e sezioni dei Sindacati (con visibile rinnovato orgoglio sindacale accompagnato dalla storica canzone “Solidarity Forever”). I momenti più toccanti sono stati gli interventi di persone che hanno portato sul palco le vicende drammatiche della loro vita: quelle di persone care morte per mancanza di assistenza sanitaria (sono 80 milioni gli statunitensi non assicurati o sottoassicurati per la sanità), di disabili emarginati, di lavoratori a bassi salari che faticano a vivere degnamente, di senza-casa permanenti, di cittadini resi malati dall’inquinamento prodotto da grandi industrie, di nativi a cui sono state sottratte le terre e quasi azzerata la loro cultura, di persone che contestano la vulgata della destra impugnando anche cartelli autoprodotti “la povertà (oppure l’essere senza casa) non è un delitto”. Significativo infine un intervento congiunto di due ragazze, una palestinese, l’altra ebrea, che hanno letto un appello al diritto di vivere in pace in Medio Oriente. La manifestazione si è chiusa col canto, peculiare delle lotte dei diritti civili e contro le guerre, di “We Shall Overcome”.

Sui temi della povertà, da 20 anni, è attivo anche un altro raggruppamento, la Poor People’s Economic Human Rights Campaign, caratterizzato da una critica radicale ad entrambi i Partiti che si alternano al governo degli USA, considerati espressioni delle élite aziendali. Esso manifesterà il 15 luglio a Milwauwee di fronte alla Convenzione nazionale repubblicana, per raggiungere poi a piedi il 19 agosto quella del Partito Democratico a Chicago. Questo raggruppamento si definisce Poor People’s Army, si considera un proseguimento dei movimenti per i diritti sociali degli anni ’60 e prefigura una “società cooperativa”. Lotta contro “la guerra che i ricchi fanno contro poveri e lavoratori” e “le violenze per mano della polizia, dei tribunali e delle prigioni”, organizza distribuzioni di cibo e, anch’esso in forme non violente, attua occupazioni di case e terreni non utilizzati. Non esclude la partecipazione elettorale indipendente dai due maggiori Partiti, e infatti una delle sue principali organizzatrici è l’attivista Cheri Honkala, che ha corso per il Partito dei Verdi nelle elezioni presidenziali del 2012 e ha una lunga storia di disobbedienza civile contro la povertà e gli sfratti.

La potenziale “base di massa” di queste due iniziative (diverse tra loro per i rapporti, o meno, col Partito Democratico, le forme di lotta, le appartenenze o meno religiose) indubbiamente esiste: gli statunitensi a basso reddito sono valutati in 140 milioni, molti dei quali cadono in povertà per le spese sanitarie nel caso di gravi malattie o per la sopravvenuta impossibilità a pagare le rate dei mutui-casa e/o quelle delle spese universitarie. La povertà è negli USA tra le prime 4 cause di morte e 38 milioni di persone (quasi il 12% degli abitanti e il 16% dei bambini sotto i 6 anni) vivono permanentemente sotto la soglia ufficiale di povertà. Ad essa concorre anche il crescere dei prezzi al consumo per viveri e il costo dell’abitare, che sono entrambi altissimi nelle grandi città, in cui il costo della vita è talvolta il doppio di aree degli USA lontane dai grattacieli: all’inizio del 2024, ad esempio, una pagnotta di pane a Los Angeles costava 4,73 dollari, mentre a Louisville, in Kentucky, una pagnotta simile costava 2,46 dollari. Ma sono proprio molte aree del Sud degli USA, una contea su 5, ad essere colpite da una povertà persistente (l’80% delle contee povere degli Stati Uniti si trovano lì, in particolare le sue aree rurali). Luoghi dove l’aspettativa di vita è di molto inferiore alla media nazionale, e dove pesa, ancor di più che nel resto del Paese, l’assenza di un servizio sanitario nazionale gratuito per tutti.

Le distribuzioni gratuite di cibo, le cosiddette banche alimentari, istituite da enti laici e religiosi stanno cercando di supplire, alla cessazione, avvenuta alla fine nel 2021, dei sussidi ai poveri stabiliti nel periodo della pandemia, e all’insufficienza dell’importo (200 dollari circa a persona al mese) dei “food stamps”, i buoni federali per il cibo, oggi denominati “Supplemental Nutrition Assistance Program”, che sono versati alle famiglie a basso reddito e nel 2022 sono stati utilizzati da 41 milioni di statunitensi.

Non sarà facile che le iniziative qui descritte, ed altre che sono attive contro la povertà e i bassi salari, raggiungano l’obiettivo di trasformare gli Stati Uniti in una Nazione della giustizia sociale, ma le persone che si battono per essi rappresentano la parte migliore di quel Paese.

Maggiori informazioni in:

https://www.poorpeoplescampaign.org/mm2024/

https://www.poorpeoplesarmy.org/