Prigionieri

Le Brigate Qassam hanno pubblicato, ieri, sui social, il messaggio audio in ebraico (con sottotitoli in arabo e inglese) di una donna nelle loro mani dal 7 ottobre 2023. Si rivolge alla gente di Israele chiedendo di scendere in piazza e di bloccare le strade, per costringere il governo a trattare per la liberazione di lei e di tutti gli altri ostaggi, “abbandonati da 237 giorni”. Questo significa che l’audio è stato registrato il giorno prima. “Non vogliamo fare la fine di Arad. Agite! Il tempo sta scadendo”. Il nome della donna non viene specificato, ma davanti alle sue mani nella foto fissa, che accompagna l’audio, si vedono dei disegni artistici e quindi potrebbe essere identificabile per la famiglia e gli amici. Uno strazio ed una tortura per i suoi cari.

ONU

Nella mattinata di oggi si dovrebbero svolgere le votazioni al Consiglio di sicurezza sulla mozione algerina per l’applicazione delle ordinanze della Corte di Giustizia Int. La bozza di risoluzione chiede “un immediato cessate il fuoco rispettato da tutte le parti, il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, e che le parti rispettino i loro obblighi di diritto internazionale nei confronti di tutte le persone detenute”. La delegazione statunitense nel suo intervento ieri l’altro aveva sostenuto che la risoluzione sarebbe inutile e non porterebbe all’obiettivo. Il Dipartimento di Stato ha emesso una dichiarazione nella quale sosteneva che “la risoluzione era di parte”, perché citava l’occupazione israeliana e non Hamas. Dopo il discorso di ieri del presidente Biden, dal sapore elettorale, si annuncia un veto USA alla risoluzione con il pretesto di non disturbare le trattative in corso.

Diplomazia Internazionale

Il presidente Biden in una diretta mondiale, preannunciata sulla piattaforma X, ha avanzato una proposta che l’ha definita come proveniente dal governo israeliano, per un accordo che garantirà la cessazione delle ostilità, il rilascio degli ostaggi, il ritiro dell’esercito israeliano dalle zone abitate di Gaza, il ritorno non condizionato della popolazione alle sue case e la distribuzione degli aiuti. Si è soffermato su questo punto così intensamente fino a dare particolari del numero dei camion che potranno entrare ogni giorno: 600 (+ 100 rispetto a quello dichiarato il minimo necessario da parte delle agenzie dell’ONU). Il presidente USA definisce il piano, da lui reso pubblico e riferito al governo di Tel Aviv, come particolareggiato e preciso e garantirà una fase nuova.

Il piano di Biden prevede tre fasi: nelle prime sei settimane si realizza il rilascio degli ostaggi civili, il ritiro dell’esercito israeliano dalle zone abitate di Gaza e il ritorno della popolazione. Nel mentre le due parti continueranno a trattare per la fase successiva che prevederà il rilascio degli ostaggi militari e una cessazione delle ostilità sostenibile e duratura; la terza fase il rilascio di tutti i corpi degli ostaggi morti e l’avvio della ricostruzione di Gaza.

Si nota subito il completo disprezzo di Washington per le terribili condizioni di prigionia dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, citati soltanto “in passant” e con leggerezza e non come una parte integrante dell’accordo. Il discorso di Biden contiene una minaccia a Hamas, che in caso di rifiuto, Israele avrebbe proseguito la sua avanzata di terra su Rafah. Non viene tralasciata anche una promessa a Tel Aviv che alla conclusione di questo accordo si apriranno le strade ad un riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita e altri paesi arabi del Golfo.

La prima reazione di Netanyahu a questo discorso è stata: “La guerra non finirà prima della distruzione di Hamas”. Questo rivela che il piano sarebbe della Casa Bianca, che di fatto si sostituisce a Tel Aviv nelle trattative.

Secondo fonti di Doha, Hamas ha ricevuto i punti del piano prima del discorso di Biden. Il leader Ismail Hanie avrebbe espresso “un atteggiamento positivo e uno spirito collaborativo”, secondo questa fonte qatariota.

Analisti arabi e palestinesi notano che il discorso di Biden non parla esplicitamente di un cessate il fuoco e di ritiro totale dell’esercito israeliano da Gaza e soprattutto non cita minimamente una soluzione globale del conflitto palestinese israeliano e la soluzione dei due Stati.

Yemen

I miliziani houthi sostengono di aver lanciato missili balistici contro una nave militare statunitense, in risposta al raid compiuto ieri contro la capitale Sana’a e il porto di Hodeida, dove sono stati uccisi 14 persone. il portavoce militare degli Houthi, Yahya Sare’e, ha affermato che il gruppo yemenita ha lanciato un attacco missilistico contro la portaerei statunitense Eisenhower nel Mar Rosso, in risposta agli attacchi delle forze armate degli Stati Uniti e del Regno Unito contro i governatorati di Sana’a, Hodeida e Taiz, in Yemen. Non è tardata la smentita degli USA che hanno definito come false le dichiarazioni del portavoce degli houthi. Centcom ha precisato che tutti i missili e i droni lanciati dal territorio yemenita nella giornata di ieri sono stati intercettati e distrutti in cielo prima di arrivare agli obiettivi disegnati.

Iraq

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha deliberato la fine della missione internazionale in Iraq (UNAMI) che dura dal 2003. Il provvedimento è stato chiesto dal governo iracheno presieduto da Soudani, fortemente preoccupato dalle interferenze politiche dei responsabili internazionali nelle vicende interne irachene, “invece di aiutare a risolvere le problematiche economiche ed ambientali”. Nel suo messaggio al segretario dell’ONU, Soudani aveva scritto: “dopo una lunga esperienza di autogoverno all’insegna del pluralismo e della democrazia, è arrivata l’ora di ritirare la missione entro il 31 dicembre del 2025 e limitare il suo intervento nel frattempo alle consulenze su economia e ambiente”. La missione UNAMI era stata voluta dal governo di occupazione militare statunitense guidato dal generale USA, Bremer, e nella delibera della sua costituzione si preannunciavano gli intenti colonialisti di smembrare il paese. Si parlava, infatti, di “migliorare i rapporti delle sue province con i paesi limitrofi”. La costituzione irachena imposta dagli USA ha dato un’impronta di spartizione etnico-confessionale del potere, che non poteva garantire al paese una stabilità politica duratura. E in questi venti anni si sono visti i risultati. La trattativa difficile sarà la fine della presenza militare statunitense nelle basi irachene.