Il 26 e 27 giugno corre l’anniversario dei fatti di Oglala, avvenuti nel 1975, quando in una terribile giornata di scontro a fuoco tra uno sparuto gruppo di nativi e due agenti dell’FBI, morirono tre persone: i due agenti e uno dei nativi. Sul posto poco dopo arrivarono decine e decine di agenti: quel giorno vennero sparate 35mila pallottole.
Pochi mesi dopo Leonard Peltier entrò in carcere e non ne uscì più, nonostante sia stato ampiamente dimostrato che le prove a suo carico furono falsate. In galera da 49 anni, a settembre compirà 80 anni.
Oggi il Comitato di solidarietà con Leonard Peltier ha manifestato, ancora una volta, a Milano. Il presidio era stato chiesto in piazza Duomo, ma per “motivi di ordine pubblico” il giorno prima la questura ha comunicato che si sarebbe potuto fare solo in piazza Mercanti. Già, perchè 15 attivisti rappresentano un pericolo, più delle migliaia e migliaia di persone che negli ultimi mesi hanno più volte riempito la piazza per i concerti…
Il concentramento è andato bene, come sempre. Con la carica in più dovuta alla liberazione di Julian Assange e la speranza che la commissione che ha recentemente analizzato il caso di Peltier possa concedere nei prossimi giorni la libertà a questo simbolo della resistenza indiana.
Questa volta il presidio è stato rinforzato dal vivace gruppo di Porti Aperti, che da anni manifesta ogni terzo giovedì del mese (costanti, non mollano!) e da un paio di attivisti, Edson e Carmen, che oltre ad avere fatto un nuovo striscione per Leonard hanno raccontato come, da sudamericani, soffrano da anni l’ingerenza statunitense. Ha parlato anche Marina: ha vissuto a lungo negli USA e ha raccontato la diffusa ipocrisia dei bianchi che inventano feste e rituali di saluto nelle scuole per omaggiare l’ideale del popolo nativo, ma poi a conti fatti i nativi sono a tutt’oggi tra le minoranze più povere ed emarginate del paese. Ai più fortunati – i Navaho -, gli unici a poter vantare una riserva che chiamano Nazione, la suprema Corte di giustizia continua a negare l’accesso alla preziosa acqua del Colorado, che scorre a poche centinaia di metri dal loro confine. Giusto per dirne qualcuna… E poi era presente il gruppo del flash mob che da settimane chiede il cessate il fuoco, non solo a Gaza ma anche in tutte le zone del mondo dove tuonano armi e bombe.
A gran voce, megafono alla mano, sono state descritte le analogie che avvicinano la storia degli Stati Uniti e della supremazia dei bianchi verso i nativi col loro feroce razzismo di sottofondo, a quella di Israele verso i palestinesi. Così il massacro di Wounded Knee, passato alla storia per l’eccidio di 300 indiani da parte della cavelleria americana, si paragona a una sola giornata a Gaza, dove da più di 8 mesi – ogni giorno – la mattanza si ripete ancora e ancora. La follia umana, in questo caso, viene giustificata.
Alla fine si replica il flash mob: al suono della sirena seguono degli scoppi, molte persone cadono a terra, immobili. Una musica straziante accompagna alcune persone che pietosamente stendono loro sopra delle lenzuola. Ogni “vittima” tiene nella mano un cartello: basta guerre, fermate i massacri… Molti che sono di passaggio si fermano, un giovane si butta a terra unendosi all’azione, tanti fotografano, alla fine appaludono.
Silenzio.
Poi il gruppo compone con dei teli bianchi la scritta CEASEFIRENOW. Grida: “Basta guerre! Ceasefire now!” Infine un bellissimo appello di Cristina, al microfono, come solo una donna sa fare: “Fermatevi, pazzi, basta guerre e odio, basta distruzione e morte, vogliamo vivere, vogliamo la pace, la giustizia, l’amore…”