Tra i tanti spunti che offre la tradizionale Relazione annuale della Banca d’Italia, presentata a fine maggio, ce ne sono almeno tre che meritano, a nostro avviso, di essere rilanciati.

1. Il primo riguarda la persistente disuguaglianza. “Nel 2023, si legge nella Relazione, il 10% più facoltoso deteneva il 60% della ricchezza netta complessiva, mentre la metà meno abbiente ne possedeva solo il 7%. Rispetto al 2010, la quota detenuta dal decimo più ricco è cresciuta di circa 7 punti percentuali, principalmente a scapito di quella della classe intermedia; la quota posseduta dalla metà meno abbiente è invece scesa solo lievemente.” Un aumento della ricchezza dei più ricchi riconducibile soprattutto all’andamento favorevole degli strumenti finanziari più rischiosi (azioni, partecipazioni, quote di fondi comuni, assicurazioni ramo vita), mentre il calo della ricchezza per i nuclei della classe media (-4,8 per cento) è invece dipeso dalla flessione del valore del patrimonio immobiliare.

Alla fine del 2023 il patrimonio abitativo rappresentava i tre quarti della ricchezza lorda delle famiglie meno abbienti, una quota relativamente elevata nel confronto europeo, mentre gli strumenti finanziari più liquidi (depositi e obbligazioni) ne costituivano il 17%. Per contro, il patrimonio del decimo più ricco era maggiormente diversificato: circa un terzo della ricchezza lorda era costituito da immobili residenziali e poco più del 40% da strumenti finanziari rischiosi. “L’indice di Gini della ricchezza netta, che sintetizza il grado di disuguaglianza della sua distribuzione, ha mostrato – scrive Banca d’Italia – un aumento della concentrazione tra il 2010 e il 2016 (crescendo dal 67 al 71 per cento), per poi assestarsi. La ricchezza finanziaria lorda è cresciuta del 6,0% in termini nominali, superando 5.600 miliardi di euro, soprattutto per la rivalutazione delle quote di fondi comuni italiani (apprezzatesi del 10,1 per cento) ed esteri (7,7) e delle azioni e partecipazioni. Il rapporto fra la ricchezza finanziaria lorda e il reddito disponibile, lievemente salito (a 4,2), è superiore a quello degli altri principali paesi dell’area dell’euro.”

2. Il secondo spunto attiene all’eccessiva precarizzazione del lavoro. Scrive la Banca d’Italia: “Nonostante l’incidenza del lavoro a termine sia scesa nel corso dell’ultimo quadriennio, principalmente nella fascia di età tra 15 e 34 anni, resta comunque molto più alta rispetto all’inizio degli anni duemila. Circa l’80 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione: il 30 per cento rimane occupato con un altro contratto a termine e il restante 50 non risulta più impiegato alle dipendenze. Secondo nostre analisi ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine. Il fenomeno si concentra in alcune aziende che utilizzano sistematicamente contratti di breve durata, in particolare nei comparti delle costruzioni, dell’alloggio e ristorazione e delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività.” Un lavoro che oltre ad essere eccessivamente precario continua ad essre povero, sottopagato. Il Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali ha sottolineato infatti che: “L’evoluzione dei salari ha riflesso il ristagno della produttività: i redditi orari dei lavoratori dipendenti sono oggi inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania. In termini pro capite, il reddito reale disponibile delle famiglie è fermo al 2000, mentre in Francia e in Germania da allora è aumentato di oltre un quinto.”

3. Il terzo elemento significativo riguarda la “fuga” di tanti giovani dal nostro Paese e la necessità di più immigrazione. “Nei prossimi anni – si legge nella Relazione della Banca d’Italia – l’offerta di lavoro continuerà a risentire della dinamica demografica: secondo lo scenario mediano delle ultime proiezioni dell’Istat, entro il 2040 la popolazione tra 15 e 64 anni si ridurrà di 5,4 milioni di individui (14,4 per cento). Il calo sarebbe in parte attenuato se il saldo migratorio netto con l’estero rimanesse in linea con quanto osservato nell’ultimo biennio (267.000 persone all’anno), al di sopra di quanto attualmente incluso nelle proiezioni (173.000). Il DPCM del 27 settembre 2023 (decreto “flussi”) prevede l’ingresso di 151.000 lavoratori stranieri in media all’anno nel triennio 2023-25. Lo stesso decreto favorisce un incremento dell’immigrazione al di fuori delle quote per alcune categorie, in particolare per gli stranieri iscritti a un ciclo di studi superiori in Italia e che intendono rimanere nel Paese dopo averlo completato. Il saldo migratorio netto è ridotto dall’emigrazione dei giovani italiani, più elevata fra i laureati. I flussi in uscita sono cresciuti marcatamente dopo la crisi del debito sovrano, quando in Italia il tasso di disoccupazione per la fascia di età 20-34 è fortemente aumentato rispetto a quello medio dell’area dell’euro; negli anni più recenti sono lievemente diminuiti.”

Una contrazione delle persone in età lavorativa che si tradurrebbe in un calo del PIL del 13 per cento, del 9 per cento in termini pro capite, compensabile, secondo il Governatore della Banca d’Italia, da un flusso di immigrati regolari superiore a quello ipotizzato dall’Istat.

Intanto, anche dalle parti della presidente Giorgia Meloni si sono finalmente accorti che il “sistema dei flussi” non funziona e che va cambiata la “Bossi-Fini”. E’ il caso di dire: benvenuti nella realtà e nella verità! Dobbiamo ora sperare che non passi troppo tempo dalla tardiva presa di coscienza del fallimento delle attuali politiche migratorie all’azione concreta di cambiamento e che quest’ultima possa considerare quanto va proponendo – per esempio – la Campagna “Ero Straniero”.

Qui per scaricare la Relazione della Banca d’Italia e le Considerazioni finali del Governatore.