Le detenute sono solo il 4%, ma sono quelle che hanno subito il più alto numero di abusi in passato. Quelle che assumono più psicofarmaci. Quelle additate come madri irresponsabili. Il caso di Aslan, un mese, in carcere con sua madre, e il recente suicidio di un’altra donna in carcere, fanno ora riparlare di un luogo di cui abbiamo già scritto_

Nel pomeriggio del 10 aprile 2023 è stata ritrovata nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, nel cortile dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario, impiccata con un paio di pantaloni elastici ad un albero di nespolo, al termine dell’ora d’aria. Non è sola. È una delle cinque donne che si sono tolte la vita nelle carceri italiane lo scorso anno. Due a poche ore di distanza, l’11 agosto, nella sezione femminile del carcere Lorusso e Cotugno a Torino. Susan, 42 anni, che si è fatta morire di fame e di sete. Azzurra, 28 anni, che si è impiccata con un lenzuolo. Un rumore flebile, come quello che fa un sasso scagliato in un pozzo profondissimo.

Sempre al Lorusso di Torino, è rinchiuso Aslan, una storia che è rimbalzata sulle cronache. Il bambino di un mese in cella con sua madre, arrestata per furto, segnalato dopo la visita di Marco Grimaldi, deputato di Alleanza Sinistra. È poi notizia recente: un’altra donna, ancora nello stesso carcere, si è tolta la vita. Le detenute avevano scritto una lettera (non è la prima volta) denunciando il sovraffollamento ormai non più tollerabile e l’ingresso di detenute con patologie psichiatriche, che non dovrebbero, come Aslan che aveva solo un mese di vita, essere lì. Come davanti a una frontiera, non percepiamo il limite tra quello che c’è fuori e quello che c’è dentro, tra la libertà e il suo prezzo.

Ma se provassimo a immaginare il carcere come una scatola cinese? Un luogo di giustizia che ripete all’infinito le stesse ingiustizie che ci sono fuori. La discriminazione di genere, sul fondo della scatola, è ancora più feroce. Tra fuori e dentro, libertà e costrizione, resta sempre riflessa, lì opaca, sullo sfondo. Le detenute sono una “minoranza carceraria”: il 4%. Sono poche, ma quasi sempre lontane dal luogo degli affetti, perché non c’è spazio. Sono quelle che hanno subito il più alto numero di abusi in passato. Quelle che assumono più psicofarmaci. Quelle additate come madri irresponsabili. Quelle che vivono la reclusione nella condizione di maggiore marginalità sociale, economica e sanitaria.

Le carceri pensate al maschile
Il rapporto dell’Associazione Antigone sulle donne detenute in Italia, pubblicato a marzo 2023, illuminava come al reato si aggiunga il peso di un sistema detentivo plasmato sulle esigenze, i bisogni e la peculiarità maschili. Intanto, secondo gli ultimi dati, sono 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. 599 donne sono distribuite nelle quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia). Le altre 1.779 sono distribuite nelle 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. La capienza ufficiale delle carceri femminili è pari a 533 posti letto. Il tasso di affollamento risulta del 112,3%, superiore al tasso generale delle carceri italiane. Le donne, con il piccolo peso numerico che arrecano al sistema penitenziario, non sono responsabili del sovraffollamento carcerario ma lo subiscono più degli uomini, quando non soffrono al contrario di isolamento. Gli atti di autolesionismo tra le donne sono stati 31 ogni 100 donne presenti, più del doppio dei 15 ogni 100 presenti registrati negli istituti che ospitano solo uomini. Altrettanto sembrano dire i tentati suicidi: 3,7 ogni 100 detenuti negli istituti e nelle sezioni femminili, più del doppio degli 1,6 degli istituti che ospitano solo uomini.

Diritto all’affettività
Un’ombra dalla vista corta. Così ti riduce il carcere. La detenzione, spiega Davide Bertaccini, professore di Diritto penale all’Università di Bologna, è caratterizzata da «modelli di costruzione del quotidiano assoggettati esclusivamente alle finalità securitarie. La socialità è nella stragrande maggioranza dei casi passeggiare in un corridoio totalmente spoglio, dove non ti puoi neanche sedere. A maggior ragione per le donne che basano molto il loro rapportarsi con il mondo sull’aspetto relazionale, è inevitabile che tutto questo rappresenti una forte distorsione». Momenti di socialità che per le donne inoltre sono ridotti. In molte carceri la separazione tra attività femminili e maschili, e la rigida invalicabilità tra le due aree, ingigantisce gli stereotipi e il divario di genere. Le detenute non partecipano alle attività dei detenuti.

«Ricordo il caso emblematico di una banda di musica. Donne e uomini facevano le prove separatamente e hanno suonato per la prima volta insieme solo durante il concerto», racconta Bertaccini. Una separazione tra persone di sesso diverso che porta a riflettere anche sul grande tema del diritto all’affettività. La sessualità nelle carceri italiane è vietata da sempre, secondo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impone il controllo visivo degli incontri con i cari. La Corte Costituzionale, come è noto, si è pronunciata aprendo alla possibilità di garantire una vita sessuale alle persone detenute, valutando come anticostituzionale il suddetto articolo. Tuttavia, in un sistema penitenziario sovraffollato sarà difficile trovare degli spazi che possano rendere effettivo un diritto che rischia di restare solo su carta.

Ma l’affettività non è solo la sessualità. Il tabu riguarda anche il contatto emotivo, che è un modo per l’essere umano di esistere e crescere. «La detenzione incide sulle forme percettive dell’individuo. C’è un processo di infantilizzazione. Si parla tanto di responsabilizzazione. Quando c’è la sottomissione, la sopraffazione non è ontologicamente possibile parlare di responsabilizzazione», conclude Bertaccini.

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