Francesca Albanese è relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Ha già presentato all’ONU due rapporti: uno sul diritto di autodeterminazione dei popoli (che va molto oltre la semplificazione dello slogan “due popoli due Stati”, con il quale le superpotenze fingono di prospettare una soluzione là dove hanno creato invece, dalla dichiarazione di Balfour del 1917 e dai presupposti della Nakba infinita iniziata nel 1947, le condizioni per un genocidio) e l’altro sulla detenzione amministrativa arbitraria (e sulla legge marziale applicata da Israele perfino sui minori, se accusati di omicidio o di atti terroristici, imprigionati, torturati e liberati solo dietro confessioni di crimini non commessi).

Ora è uscito, per i tipi di Fuori Scena, J’accuse, un libro che è nato dalle conversazioni con Christian Elia su “gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra”. È stato presentato lunedì 24 giugno a Palermo per iniziativa del CISS, di Amnesty International, Mediterranea, Maldusa e altre associazioni.

Con l’autrice ha conversato l’attivista Marta Bellingreri insieme ad Amal Hajal, manager di progetti sul tema della protezione e della violenza di genere, che dopo il 7 ottobre non è più potuta rientrare in Palestina e ha dovuto seguire a distanza le vicende delle persone cui era legata, come la morte per cancro del nonno rimasto privo di terapia o l’esodo della sua amica Intifar, che ha dovuto cambiare sette case dopo l’intimazione di evacuazione, con le sue due bambine ferite e prive di cure, e che ora vive nelle tende: le tocca percorrere due chilometri a piedi per andare a raccogliere tre litri d’acqua e altrettanti per tornare.

Ma il vero problema è racimolare qualcosa per l’unico pasto quotidiano. Perché a Gaza, se non ti uccidono le bombe, ti uccide la carestia forzata: già 37 bambini sono morti di fame. Una melanzana costa 50 euro, un chilo di pomodori 100 sheqel, cioè 30 euro, 10 uova 50 euro. E il 90% delle persone è senza lavoro. E col caldo si moltiplicano insetti, serpenti, epatite e scabbia…

Perché cominciate a contare la storia dal 7 ottobre? Ci chiede Amal. E Francesca rincara: la storia dei palestinesi è una storia di occupazione da quattro generazioni, di colonizzazione e di apartheid, aggravato oggi dal cosiddetto principio del No Harm che impedisce l’arrivo degli aiuti umanitari.

Le vettovaglie paracadutate sono solo spettacolo e propaganda: finiscono in mare e la gente annega per recuperarle, anche se si tratta solo di inutili mascherine chirurgiche, o muore schiacciata per recuperare qualcosa, o ancora i pacchi cadono su case, tende, campi coltivati e li distruggono. Il carburante sprecato per gli aerei sarebbe stato meglio impiegato nei camion, ma i due ingressi nella striscia di Gaza, Rafah verso l’Egitto e Adb El Salam, sono bloccati dall’esercito israeliano.

I numeri del genocidio sono noti: 37.000 vittime civili di cui 14.000 bambini, 21.000 orfani e 4.000 dispersi. Tutte le strutture sociali sono sotto attacco: scuole, ospedali, risorse agricole e idriche. A Rafah e Khan Yunis non ci sono più ospedali, il personale medico è stato torturato e ucciso.

Gli operatori sociali, per essere autorizzati ad intervenire, devono inviare il proprio progetto all‘UNRWA che a sua volta deve inoltrarlo all’esercito israeliano per il benestare, che non sempre arriva.

Sì, tutto questo è noto, ma Francesca Albanese ci propone uno sguardo altro. Innanzi tutto ci mette in guardia dalla violenza epistemica contenuta nel linguaggio. Ad esempio, usare il termine antisemitismo, avverte, finisce col giustificare la paura esistenziale che Israele adduce a giustificazione dell’aggressione militare inconsulta. Il diritto alla resistenza, riconosciuto dalle norme internazionali in caso di negata autodeterminazione, ma anche l’odio generato dall’oppressione non possono definirsi antisemitismo. Così come il termine genocidio, riconosciuto dai Paesi di tutto il Sud del mondo, deve poter essere usato.

L’intento genocida è stato ammesso dalla Corte Penale Internazionale, che persegue i crimini individuali, e dalla Corte Internazionale di Giustizia, che invece accerta i reati di apartheid ed ha già affrontato il genocidio in Myanmar, Bosnia e Croazia. Ma in Palestina, prosegue Francesca Albanese, si tratta di un genocidio coloniale: tutti i popoli del sud del mondo si stanno identificando con i palestinesi.

Ecco, la sua prospettiva è nuova: a fronte di una disumanizzazione globale, ci fa interrogare sulla possibilità di riumanizzare il diritto e, attraverso il diritto internazionale, riumanizzare la storia.

E soprattutto esprime fiducia in questo momento storico che reputa rivoluzionario, per la mobilitazione fortissima e dilagante in tutto il mondo, specie da parte degli studenti, che pure vengono repressi.

Occorre scardinare i meccanismi di controllo delle multinazionali, dice, e sradicare la mentalità coloniale che alligna in ognuno di noi.

Quali impressioni, quali sollecitazioni restano infine? Niente di nuovo eppure tutto nuovo. La storia è nota, almeno per il pubblico presente, ma ascoltarne il racconto nelle parole di chi la vive ha un’eco diversa da quella delle notizie recuperate dal mare magnum dell’informazione main stream.

La commozione e la rabbia di Amal e la prospettiva giuridica di Francesca hanno offerto più che un’occasione di conoscenza e riflessione. Gli applausi nel bel mezzo degli interventi, il sentire scomoda la sedia in un sobbalzo di indignazione, hanno reiterato la necessità di esserci, di fare, oltre il già detto, il già fatto. E di esserci e fare insieme, a casa nostra, con la comunità palestinese vicina e lontana. Se il senso di solidarietà e condivisione della storia reale può umanizzare il diritto, la prospettiva nuova, che lascia aperta la domanda, è se anche il diritto possa umanizzare la storia.

Così sembra fare Francesca Albanese che, a rischio di risultare scomoda, esprime a gran voce la sua contrarietà all’abuso della cooperazione internazionale chiedendoci, in alternativa, di farci promotori di atti di giustizia, di lavorare nei nostri Paesi per scardinare il meccanismo di controllo multinazionale che sta alla base di tutte le guerre.