L’insostenibilità economica, in uno con la ‘razionalizzazione dello spazio ‘ e la ‘incompatibilità naturale’ (sic!) di un archivio e il museo, si configura – dal punto di vista della gestione neoliberista della fruizione (leggasi: “sbigliettamento” e “servizi aggiunti”) – come un dis\valore del sito museale. Purtuttavia, nel caso del “fondo-Carla Lonzi”, la motivazione della diseconomia dei costi non regge nemmeno “data l’attenzione che sta catalizzando il corpus su case editrici italiane ed estere”. La vera questione è un’altra. Riguarda l’intero sistema del beni culturali: la loro messa in valore è assai più redditizia quando si getta lo sguardo oltre “l’ostacolo” della cultura. Infatti, così come evidenzia l’associazione MiRiconosci? nella nota integrale che segue: “In un Paese in cui il bene culturale è pubblico, la fruizione ai fini di ricerca e studio invece di essere la priorità diventa una pratica di cui sbarazzarsi”. Allora… meglio aprire le porte alla mercificazione del patrimonio culturale con finalità commerciali più redditizie, come – ad esempio – “location da affittare per aperitivi, banchetti ed eventi esclusivi”[accì]
Da qualche giorno si parla della decisione della nuova direttrice della GNAM (Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) Renata Cristina Mazzantini, che si è sentita “costretta” a interrompere, con tre anni di anticipo dalla scadenza, il comodato d’uso del Fondo Carla Lonzi, così come quello di altri fondi conservati presso l’archivio. La decisione è stata comunicata al proprietario e alla curatrice del fondo senza particolari spiegazioni.
Secondo le dichiarazioni rilasciate dalla direttrice ai giornali le motivazioni sono di natura economica (il taglio dei costi dell’assicurazione), logistica (non c’è spazio) e funzionale (un museo non è il luogo adatto ad ospitare un archivio e non può esserne il “pronto soccorso” di beni di terzi). Nel caso del Fondo Lonzi viene addirittura messo in discussione il suo valore di bene culturale, poiché l’archivio privato non è ancora stato vincolato dalla Soprintendenza. Mazzantini, secondo cui non ci sarebbe necessità di mantenere l’archivio lì in quanto già digitalizzato, mette in discussione quindi l’opportunità di spendere fondi pubblici per un fondo non di proprietà statale, e financo l’opportunità di avere un archivio in un museo, in assoluto.
Questa scelta va a inserirsi in quella retorica che accompagna da anni la narrazione sui musei italiani, portatori di un unico vero scopo: lo sbigliettamento. Un malinteso grossolano, una retorica che sancisce l’inutilità dei beni archivistici e librari perché non generano un ritorno economico. E infatti assistiamo alla messa a reddito degli spazi di archivi e biblioteche, che diventano location da affittare per aperitivi, banchetti ed eventi esclusivi.
Per quanto riguarda il Fondo Lonzi la motivazione economica nemmeno regge, data l’attenzione che sta catalizzando il corpus su case editrici italiane ed estere. E proprio per questo forte interesse l’archivio rischia di essere disperso e venduto. È davvero questo che vogliamo? Il comodato d’uso non è la soluzione migliore, ma di certo aiuta a conservare un patrimonio che rischierebbe di venire altrimenti compromesso. In un Paese in cui il bene culturale è pubblico, la fruizione ai fini di ricerca e studio invece di essere la priorità diventa una pratica di cui sbarazzarsi.
Chiunque abbia fatto ricerca o visitato un archivio sa che la consultazione dei documenti digitalizzati non esclude la necessità di accedere ai documenti originali. Come si può negare l’importanza degli archivi per la storia dei musei e lo stretto legame che tra essi intercorre, soprattutto per un caso come quello della Galleria Nazionale d’Arte Moderna?
La direttrice sembra insomma ignorare l’importanza che gli archivi della GNAM rivestono per studiose e ricercatori, studenti e studentesse, ma anche cittadine e cittadini interessati alla storia dell’arte italiana del XX secolo, essendo conservati presso la sede diversi fondi di richiamo almeno nazionale.
È ora di svincolarci dalle logiche aziendalistiche alla base della gestione dei beni culturali e tornare ad accettare che creare conoscenza, come fanno gli archivi, è intrinsecamente un valore che merita di essere tutelato, anche da un museo. Come spiega la definizione ufficiale di museo: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale”. Che a quanto pare non tutti i direttori di musei autonomi conoscono e riconoscono.