Se i risultati delle elezioni europee, nel loro complesso, non lasciano presagire particolari scossoni per quanto attiene alle linee guida delle politiche comunitarie, altrettanto non si può dire degli effetti sulla situazione interna ad alcuni Paesi, dove il voto dell’8 e 9 giugno ha provocato veri e propri terremoti. È il caso della Francia, dove il presidente Emmanuel Macron, in seguito alla netta sconfitta elettorale, ha sciolto parlamento e indetto nuove elezioni, e del Belgio, che ha visto il primo ministro liberale Alexander De Croo rassegnare le dimissioni dopo essere stato battuto alle urne. Non è da meno la Germania, dove il cancelliere Scholz è stato surclassato sia dai conservatori moderati che dalle forze dell’ultradestra. Le prossime settimane saranno dunque decisive per comprendere quale fisionomia assumeranno alcuni tra i più influenti governi del Continente.

Il primo grande leader nazionale uscito sconfitto da queste elezioni europee è sicuramente il presidente francese Emmanuel Macron, il cui partito centrista Reinassance ha ottenuto soltanto il 15,2% dei consensi, venendo sbaragliato dal Rassemblement national – forza di estrema destra guidata da Marine Le Pen – che ha raggiunto il 31,5% dei consensi, divenendo in assoluto il primo partito all’Eurocamera per numero di eletti. Ieri sera, Macron ha annunciato lo scioglimento dell’assemblea nazionale, dichiarando in un discorso diffuso sui propri canali social che «dopo aver effettuato le consultazioni previste dall’articolo 12 della nostra Costituzione», ha deciso restituire ai francesi «la scelta del nostro futuro parlamentare attraverso il voto». Il primo turno si terrà il 30 giugno, il secondo il 7 luglio. La mossa di Macron rappresenta la prova più plastica di una sconfitta cocente, specie dal momento che era stato lo stesso Jordan Bardella, presidente di Rn e principale candidato principale del partito alle europee, a chiedere al presidente francese di procedere in tal senso nel suo discorso di vittoria.

Uno scenario simile è quello del Belgio – in cui, oltre alle Europee si votava anche per le elezioni federali e locali –, dove il primo ministro Alexander De Croo ha ufficializzato le sue dimissioni. Il suo partito è crollato al 5,9%, mentre si è registrato l’importante risultato del Vlaam Belang, il partito nazionalista fiammingo guidato da Tom van Grieken, che ha raggiunto il 21% dei consensi, senza riuscire però a battere i conservatori di New Flemish Alliance (25%) come i sondaggi pre-elettorali avevano per mesi ventilato. «Per noi è una sera particolarmente difficile, abbiamo perso», ha dichiarato – non riuscendo a trattenere le lacrime – De Croo, il quale ha ammesso la sonora sconfitta e si è complimentato con le forze della destra fiamminga. «Mi assumo le mie responsabilità, da domani – ha aggiunto – sarò un primo ministro dimissionario e mi concentrerò sulla gestione degli affari correnti».

In Germania, il grande perdente è il presidente socialista Olaf Scholz. Il suo partito ha raccolto solo il 14% dei voti (peggior risultato mai ottenuto in tutte le dieci elezioni europee svoltesi finora), la metà dei consensi ottenuti dalla CDU/CSU, che con il 30% è risultato il partito più votato. Scholz è stato superato anche dagli estremisti di destra dell’AfD, che con il 16,2% dei voti sono il secondo partito nel Paese. La crisi è però diffusa a tutta la coalizione guidata dal cancelliere: i Verdi, che nel 2019 si erano attestati al 20,5% delle preferenze, sono crollati all’11,9%, mentre il partner della coalizione Fdp ha preso il 5,2% (poco al di sopra della soglia sotto cui, alle elezioni federali, si finirebbe fuori dal Parlamento). Scholz aveva fortemente personalizzato le Europee come una sorta di referendum sul suo operato: la bocciatura degli elettori è stata clamorosa e ora, forti dei nuovi rapporti di forza in campo, i vertici dell’Union gli hanno espressamente chiesto di presentarsi al Bundestag per «chiedere il voto di fiducia».

Interessante è anche la situazione in Slovacchia, dove il partito del primo ministro Robert Fico – reduce da un attentato a colpi di arma da fuoco avvenuto lo scorso 15 maggio – perde il primato. Le elezioni sono infatti state vinte dal partito di opposizione Slovacchia Progressista con il 27,81% dei voti, mentre lo Smer-Sd del premier è arrivato secondo con il 24,76%. In Ungheria, nonostante il suo partito, Fidesz, abbia ampiamente primeggiato con il 44% dei consensi, si registra una battuta d’arresto per il presidente Orban. Si tratta, infatti, del dato più basso maturato dalla sua forza politica nell’arco delle cinque elezioni per il Parlamento europeo che si sono svolte nel Paese. Infatti, nel 2004 Fidesz ottenne il 47,4%, nel 2009 il 56,4%, nel 2014 il 57,1% e nel 2019 il 52,6%.

Si contano, comunque, anche casi di nazioni in cui i governi non escono indeboliti dalle europee. È il caso dell’Italia, dove Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni migliora addirittura il dato delle ultime Politiche, arrivando a sfiorare il 29%. In Spagna ha ottenuto il maggior numero di consensi – il 34,2% dei voti – il Partito Popolare di Alberto Nunez Feijoo, che non è però riuscito a staccare di molti punti percentuali i socialisti del premier Pedro Sanchez, che si attestano come secondo partito prendendo il 30,1%. La terza forza è Vox, che sfiora il 10% dei voti. Una buona performance, più contenuta però rispetto ad altri partiti di ultra-destra in Europa. In Portogallo l’Alleanza democratica di centrodestra, al governo del Paese, ottiene il 30,6%, venendo superata di pochi decimi dai socialisti, che si accaparrano il 31,4% dei consensi. Il partito di estrema destra Chega di Andrè Ventura, con il 9,2%, si colloca in quarta posizione.

 

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