Da alcuni giorni la stampa di destra, reazionaria e fascistoide, ha scatenato una vergognosa campagna contro Ilaria Salis dopo che la neodeputata europea ha giustamente rivendicato la partecipazione a un’occupazione per il diritto alla casa avvenuta anni fa.
La vicenda in qualche modo ha riproposto una delle questioni sociali più gravi del nostro Paese, da diversi decenni, direi da sempre, a cui si cercò in qualche modo di ovviare durante la stagione dell’edilizia popolare, in particolare negli anni Sessanta. Non si andò tuttavia alle radici del problema, salvo il tentativo di una legge dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, che nel 1962 metteva in discussione la logica di mercato a favore di una pianificazione pubblica; tentativo stroncato dal “partito del mattone e delle speculazione”, nonché dalle forze governative, a partire dalla DC.
In ogni caso, seppure con scelte criticabili dal punto di vista urbanistico, spesso ghettizzanti, l’edilizia popolare fu parzialmente attuata, senza naturalmente mettere in discussione la centralità delle politiche di mercato.
A partire dagli anni Ottanta con il graduale smantellamento del welfare, anche la questione abitativa è man mano passata in secondo piano e le logiche di mercato e del profitto sono divenute ancora più centrali. Da allora le caratteristiche del nostro patrimonio abitativo sono cambiate profondamente e in pochi decenni la maggior parte delle famiglie, anche di ceto popolare, sono diventate proprietarie, spesso attraverso il ricorso al sistema bancario, il quale ha lucrato ampiamente sulla trasformazione in atto. La casa da diritto è diventata ostaggio delle logiche mercificatrici, un bene sul quale speculare, investire, lucrare fino al gradino relativamente più basso della scala sociale. Avere una seconda abitazione, per eredità o grazie ai propri risparmi, è oramai una preziosa integrazione al reddito, e magari occasione di arricchimento, come ben sanno coloro che risiedono nelle località turistiche.
Questo breve excursus storico per inquadrare l’attuale situazione sempre più drammatica per quella fascia ampia di popolazione – immigrati, giovani precari, disoccupati o cassa integrati cronici e quant’altro – che rientra nella tipologia di chi non può permettersi di acquistare un appartamento, o avendone avuta la possibilità in passato, se l’è visto pignorare dalla banca per non essere riuscita a pagare il mutuo.
La pubblicazione dell’Agenzia delle entrate “Gli immobili in Italia 2023”, ci aiuta a inquadrare lo scenario: “Il 77% delle famiglie italiane è proprietaria, mentre lo stock abitativo concesso in locazione è oltre l’11%, le abitazioni a disposizione (tra cui sono incluse tipicamente le seconde case) rimangono sopra il 17% e sono poco meno di 800 mila unità, 2,4% del totale, le abitazioni date in uso gratuito a un proprio familiare. Inoltre, sempre mantenendo l’ipotesi che non ci sia più di un nucleo familiare nella stessa abitazione, la differenza tra il numero totale di abitazioni e il numero di famiglie si mantiene intorno a 9,6 milioni di unità immobiliari residenziali (27,2% del totale) e dà la misura di quante abitazioni non siano utilizzate come residenza principale. Se questo ammontare viene depurato delle abitazioni dichiarate “a disposizione” (circa 74,5 mila in più del 2019) e quindi teoricamente “non occupate”, si rileva che circa 3,9 milioni di unità abitative (11% circa del totale) potrebbero essere state date in uso a soggetti non residenti (lavoratori, studenti fuori sede, ecc.).”.
In questo quadro si comprende come contrastare tale situazione con le pratiche da anni portate avanti dai movimenti per il diritto all’abitare è cosa meritoria. In Italia c’è una lunga tradizione di questa forma di lotta, diffusasi ampiamente nel decennio tra la fine degli anni Sessanta e quello successivo, ma presente anche da prima. Non deve sorprendere che a parte la canea della destra, i Gramellini di turno abbiano alzato il ditino nei confronti della Salis dicendo che così non si fa, che “è illegale”, come se lo fosse speculare e arricchirsi su un bisogno primario, in barba, a proposito di “legalità”, all’articolo 3 della Costituzione. In Europa, vedi Amburgo, per citare solo un esempio, sono state messe in atto politiche di contrasto all’imperversare del mercato. C’è una legalità che cerca di tutelare i bisogni primari e una che viceversa è ancella del profitto.
Tornando a noi sorprende che un’attenta osservatrice delle nostre dinamiche sociali come Chiara Saraceno in un interessante e condivisibile articolo sul tema uscito su La Stampa, alla fine, pur riconoscendo l’impegno meritorio dei movimenti che cercano di “organizzare una domanda sociale, facendo uscire dall’isolamento e dalla solitudine chi manca di quel bene essenziale che è un’abitazione decente” poi aggiunga che “farlo occupando abitazioni di edilizia popolare, in sprezzo alle graduatorie e di fatto negando il diritto di chi stava in coda, e senza pagare l‘affitto tuttavia, mi sembra, nel migliore dei casi, una variante della guerra tra poveri più o meno prepotenti, o organizzati, dove a perdere è sempre il più debole”.
Evidentemente la Saraceno ignora che molte di queste occupazioni riguardano stabili sia di proprietà pubblica che privata abbandonati nell’incuria e nel degrado. Così come i tempi estremamente lunghi o comunque non funzionali delle graduatorie di fronte alle pressanti esigenze di chi è costretto a dormire in strada o in posti estremamente problematici non fanno che evadere una domanda sociale estremamente ampia. Quindi le occupazioni organizzate dai movimenti, lo dico con cognizione di causa avendo partecipato a due di queste undici anni fa, non fanno che cercare di sopperire a un problema che genera disperazione e sicuramente anche la guerra tra poveri evocata dalla Saraceno nell’articolo, citando recenti vicende di cronaca. Non ci sono dubbi che ci siano occupazioni che cadono in mano al racket o nel migliore dei casi a dinamiche diciamo discutibili, ma nel caso siano i movimenti organizzati a essere protagonisti, quello che subentra è un percorso di partecipazione e di autogestione improntato al rispetto e alla partecipazione dei diretti interessati.
Forse prima di affrontare certi argomenti bisognerebbe andare a vedere di persona e poi giudicare.