Riprendiamo l’intervento di Tomaso Montanari pubblicato oggi su Volere la Luna, con il quale si fa il punto su ciò che non dovrebbe essere la Festa di una Repubblica sorta dalla Resistenza partigiana contro il nazifascismo[accì]
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Cosa rimane, in questo 2 giugno 2024, dell’incipit della nostra Costituzione?
Il primo a cadere è stato il lavoro: è quello che si sta tirando dietro tutto il resto. La precarizzazione, il Jobs Act, il capitale umano, il ‘mercato del lavoro’, i lavoratori carne da macello in un rosario infinito di ‘morti sul lavoro’: la conosciamo la storia degli ultimi trent’anni. Ed è stato proprio il tradimento del progetto politico della Costituzione (violentemente negato in ciò che affermano gli articoli 3, 9, 32-34, 41… e tanti altri) a trascinarsi dietro il resto di quelle parole cruciali. Ripercorriamole.
«Democratica»: la marginalità del Parlamento, le leggi elettorali incostituzionali, le letali elezioni dirette di presidenti di regione e sindaci… Già oggi ci sono molti dubbi sull’effettività della nostra sgangherata democrazia. Ma se passasse il ‘premierato’, e insieme anche la riforma della giustizia, quell’aggettivo – ‘democratica’ – cadrebbe anche formalmente. Un unico potere mangerebbe gli altri due: il Governo svuoterebbe il Parlamento (e con esso gli organi di garanzia, dalla Presidenza della Repubblica alla Corte Costituzionale) e controllerebbe la magistratura. Solo l’esecutivo: fine del legislativo, fine del giudiziario. Eccoli, i ‘pieni poteri’: cioè la concentrazione in unico potere, in un assetto addirittura preilluministico, da antico regime. E, poi, quale potere esecutivo! Nemmeno la collegialità di un governo, no: un capo, plebiscitato da una folla informe. Neanche l’Ungheria, oggi, versa in tali condizioni.
«Una Repubblica»? No, l’autonomia differenziata sta per cancellarla. Venti repubblichette con i loro capetti, senza vincoli di solidarietà, in una giungla competitiva in cui si salvi chi può (cioè chi è ricco). La fine di un progetto di Paese: ogni regione la sua scuola, la sua università, i suoi musei in una regressione tribale spaventosa. E naturalmente le sue alluvioni e le sue frane, nella fine vera di ogni tutela di ambiente e territorio: basta con le odiate soprintendenze, ognuno padrone in casa propria, e balliamo liberi verso una tomba di cemento. Un progetto scellerato innescato dall’ennesimo tradimento del Centrosinistra, che nel 2001 ha piazzato nella Costituzione la mina che ora una destra oscena fa brillare, tirando giù tutto. Il bersaglio grosso, è chiaro, è proprio la Costituzione, antifascista e solidale, del 1948: relitto inservibile al tempo della scuola del merito e della competitività, al tempo della guerra che torna, al tempo del fascismo al governo.
E poi, l’Italia: anche la prima parola della Carta tra un po’ non indicherà più nulla. Non quella per cui offrivano la loro vita i condannati a morte della Resistenza. Non quella di Mazzini, o Garibaldi. Una espressione geografica, di nuovo: per mano nostra, stavolta. Anzi, peggio. Perché, si chiedono gli ingenui, il partito di matrice fascista, che ci allaga con la retorica della nazione, accetta di distruggere l’identità italiana in nome della quale colonizza biennali e musei? Uno scambio con i secessionisti, si dice. Non solo, non basta. La verità è che della storia e della cultura italiane, ciò che davvero ci fa nazione (in una identità plurale e aperta, che muta nel tempo), a costoro nulla cale: nulla ne sanno, ancor prima. A loro interessa il sangue: ciò che nessun migrante (anzi nessun nero) potrà mai avere. E, dunque, che patrimonio, scuola e cultura siano fatti pure in venti frammenti irrilevanti e irrelati. Perché «il razzismo nostro è quello del sangue», scriveva Giorgio maestro di Giorgia, sull’immonda rivista che ‘difendeva la razza’. E oggi questi grotteschi epigoni del peggio, questi «figli di fogna» (per usare un’espressione di santa Caterina da Siena), parlano appunto di ‘sostituzione etnica’, in un concentrato di ignoranza e orrore senza pari: «il razzismo nostro è quello del sangue».
Ciò che vorrei vedere, il 2 giugno, non è l’oscena parata di armi (ancor più insensata e oscena mentre i capi dell’Europa ci trascinano verso l’abisso nucleare), né la bandiera stampata in aria con strazio dell’ambiente, no. Una parata di maestri e maestre, vorrei: di professori e professoresse, infermiere e infermieri, medici del corpo e della mente, artisti e musicisti, studentesse e studenti… Perché è da ciò che resta del prendersi cura, del costruire bellezza, conoscenza e pensiero critico, che può venire il riscatto.
Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza collettiva se vogliamo che il popolo – sì, quello a cui appartiene la sovranità, secondo le parole che continuano l’articolo 1 – torni ad esercitarla in referendum capaci di riportare quella sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Solo così quell’articolo esisterà ancora. E noi con lui.