La notizia che la Spagna l’Irlanda e la Norvegia hanno deciso di riconoscere la Palestina va considerata positivamente, poiché rappresenta una prima incrinatura del fronte occidentale ad oggi l’unico a livello globale compattamente schierato con Israele.

La notizia è arrivata quasi in contemporanea con la richiesta di arresto per Netanyahu e con il successivo pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia che ha intimato ad Israele di fermare l’attacco a Rafah e riaprire il valico.

Si tratta di passaggi estremamente importanti almeno sul piano simbolico e rispetto ai possibili esiti futuri. Nell’immediato cambia poco: l’offensiva israeliana continua e si intensifica e la stessa prospettiva di “due popoli, due Stati” che sta dietro i riconoscimenti, appare non realistica considerando la situazione sul terreno.

Gli attacchi israeliani hanno provocato almeno 35.000 morti, di cui 15.000 bambini, e lo spostamento di due milioni di palestinesi, di cui un milione e mezzo a Rafah. Ma ciò che appare (se mai fosse possibile) ancora più grave è che l’esercito israeliano sta mutando, in un modo che almeno nelle intenzioni degli occupanti dovrebbe essere “per sempre”, la geografia della striscia di Gaza.

Israele, grazie a quanto è possibile rilevare a livello satellitare, pare stia desertificando, attraverso la sistematica distruzione di ogni segno di vita (case, scuole, ospedali, moschee, campi coltivati), un territorio pari al 16% di Gaza, per costruire una “zona cuscinetto” di un chilometro di larghezza inaccessibile ai palestinesi e fortemente militarizzata, in modo da costituire un limite invalicabile entro il quale gli abitanti della striscia resterebbero rinchiusi.

La nuova barriera correrebbe lungo i sessanta chilometri che dividono la striscia da Israele e dovrebbe essere dotata in modo ininterrotto di postazioni militari e sofisticati sistemi di rilevamento e di avvistamento in modo da rendere impossibile anche solo potersi avvicinare. In pratica un carcere di massima sicurezza a cielo aperto, nel quale verrebbe richiusa in modo indiscriminato una intera popolazione.
Ma questo non è tutto!

Israele sta di fatto ripristinando il vecchio posto di blocco abbandonato di Netzarim, trasformandolo in un corridoio che taglierà in due parti incomunicabili l’intera striscia. Si tratta in pratica di una vecchia strada lunga circa tre chilometri e mezzo che partiva dal confine orientale con Israele e che è stata ora allungata a circa sei chilometri in modo da raggiungere il mediterraneo. Il nuovo “corridoio di Netzarim”, sarà ovviamente riempito di infrastrutture militari e rappresenterà un nuovo confine invalicabile che invece di separare israeliani e palestinesi, separerà la striscia del nord da quella del sud.

Giusto a sottolineare come le scelte di Israele abbiano una precisa continuità che si ripete nel tempo, e che è a nostro avviso improntata ad una logica di genocidio e di sostituzione etnica nei confronti del popolo palestinese, gioverà ricordare che il progetto non è per nulla nuovo, rappresentando in parte la ripresa di una vecchia ipotesi di Sharon che intendeva costruire addirittura cinque barriere all’interno della striscia, come le cinque dita di una grande mano, e di cui il corridoio di Netzarim, avrebbe dovuto costituire precisamente il dito numero due.

Tornando ora al (triste) presente, poiché il nuovo corridoio separerà in pratica Gaza da Rafah, mi pare ovvio che a questo punto diventa del tutto plausibile coltivare il sospetto che lo scopo di Israele possa essere quello di impedire il ritorno degli sfollati a Gaza.

Si tratta, come abbiamo detto, di un milione e mezzo di palestinesi che l’esercito israeliano ha spinto verso sud e che ora sta lasciando morire di fame e di stenti, imprigionati in quei campi profughi presso Rafah che sono ora sbarrati da ogni lato. Ad est dal confine con Israele, al nord dal nuovo corridoio di Netzarim e ad ovest dal mar Mediterraneo che esattamente come i cieli sopra la striscia, viene strettamente controllato da Israele in spregio ad ogni principio del diritto internazionale.

Solo il confine sud di Rafah non è controllato da Israele. Ma a sud sta l’Egitto, alimentando così il sospetto che lo Stato ebraico, per quanto difficile possa apparire al momento una tale possibilità, non abbia mai rinunciato alla ipotesi di realizzare la pulizia etnica dei palestinesi attraverso una grande espulsione di massa verso altri luoghi, lontano dalla loro “terra promessa”, per la realizzazione della “Grande Israele”.

Come è facile constatare, la costruzione di uno Stato palestinese, o qualunque altra diversa ipotesi di liberazione del popolo palestinese, è al momento possibilità remota che necessiterebbe quanto meno di una sconfitta storica, definitiva e senza appello, delle politiche genocidarie da sempre portate avanti da Israele.

Ribadiamo, come già detto in altri luoghi, che non pensiamo ad una sconfitta militare (per altro ad oggi impossibile sul campo), quanto piuttosto ad una sconfitta sul piano etico e culturale che consideri “inammissibili” e “scandalose” le intenzioni e le scelte dello Stato di Israele. Si tratta di un processo necessario da cui dipende (è bene precisarlo) anche la liberazione della grande storia del popolo ebraico, oggi avvilita nel suo essere prigioniera della follia sionista. (Per quanto possa sembrare paradossale, è proprio Israele che con le sue politiche alimenta l’antisemitismo).

Un percorso difficile che non potrà avere conclusione positiva se non con grandi mobilitazioni di massa in ogni angolo del mondo, ma rispetto al quale anche le prese di posizione degli Stati e della Corte Internazionale di Giustizia, per quanto in sé non decisive, possono avere un senso e portare il loro positivo contributo.