Il 22 dicembre 1947 la Costituzione fu approvata con l’88% dei consensi. Ci furono soltanto 62 voti contrari. Per modificare il testo della Legge Fondamentale – a prescindere dalle regole stabilite nella stessa Costituzione – sarebbe eticamente necessaria una maggioranza che riuscisse a eguagliare o a superare la percentuale originaria dell’88% dei voti a favore. In altre parole, se il Patto comune è stato siglato con un consenso quasi unanime, altrettanto unanime dovrebbe essere la condivisione di una eventuale modifica o aggiornamento.
Non solo. Quei 62 parlamentari che non approvarono il testo, votarono a favore di un ordine del giorno presentato da Aldo Moro: «L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta Costituzionale trovi
senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali del popolo italiano».
Forse non è stata sufficientemente sottolineata la grandezza di quei 62 costituenti (sostanzialmente tutti culturalmente o politicamente di destra), che, pur non condividendo il testo della nuova Carta, sostennero che la Costituzione dovesse diventare patrimonio di tutti. Dimostrarono di comprendere pienamente il valore delle istituzioni che si antepone alle proprie convinzioni personali.
Negli ultimi decenni la Costituzione, anziché “essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento” (Giuseppe Dossetti), è diventata oggetto della contesa politica, spesso con argomentazioni strumentali. I novelli costituenti, assai poco preoccupati di raggiungere un ampio consenso per realizzare le eventuali modifiche della Carta, si sono esercitati in spericolate proposte populiste, mettendo in discussione persino l’equilibrio dei poteri, caposaldo di ogni democrazia.
In questa deriva si colloca anche il disegno di revisione costituzionale del cosiddetto “premierato”, che vorrebbe introdurre l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri e rafforzare i poteri del governo, a scapito di quelli del parlamento e soprattutto del presidente della Repubblica. Il fatto che questa modifica della Costituzione sia stata presentata dall’attuale presidente del consiglio dei ministri mostra con assoluta evidenza la mancanza di imparzialità e il configurarsi di una coincidenza di interessi “ad personam”.
Interrogata sull’incertezza dell’esito della proposta del “premierato”, Giorgia Meloni ha dichiarato: “O la va o la spacca”. L’intervento di revisione della Costituzione viene evidentemente considerato come una scommessa, un azzardo che non ha nulla a che vedere con la costruzione e la condivisione dei principi del bene comune. Dal 1948 ad oggi non è mai stato raggiunto un degrado così accentuato del modo di intendere il Patto costituzionale come quello espresso nella “boutade” della presidente del consiglio dei ministri.
Misuriamo oggi l’infinita distanza tra l’atteggiamento dei 62 costituenti con orientamento politico di destra nel 1947 e gli attuali esponenti della coalizione di destra al governo del Paese. I primi hanno dimostrato una cultura istituzionale responsabile, che aveva a cuore le sorti dell’Italia e delle future generazioni. Gli epigoni non si vergognano e non si preoccupano del danno che può essere causato sia da ciò che “va” sia da ciò che “spacca”, poiché in entrambi i casi si tratta di forzature unilaterali. Le riforme costituzionali non condivise sono in ogni caso spaccature dannose.
“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Così recita l’art. 54 della Costituzione. Fedeltà, disciplina e onore a prima vista sembrano valori di riferimento di una cultura conservatrice, che però risultano indigesti e inaccettabili per una destra qualunquista ed eversiva.