1. La cancellazione sostanziale del diritto di asilo, previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art.18) e dalla Costituzione italiana (art.10), costituisce una delle manifestazioni più evidenti del razzismo istituzionale che ormai pervade le politiche migratorie europee ed italiane, sotto la spinta di partiti populisti apertamente xenofobi che hanno incassato una serie di successi elettorali investendo sulla paura e sulla disgregazione sociale alimentate dalle crisi sanitarie, e più recentemente dall’economia di guerra. La possibilità di chiedere asilo in un paese sicuro è ormai negata sia sul piano fisico, impedendo materialmente ai potenziali richiedenti di raggiungere i confini dei paesi europei, con accordi con i paesi di transito per ridurre le possibilità di fuga attraverso forme diverse di “cooperazione operativa” per contrastare l’immigrazione “illegale”, e sul piano procedurale, con la cd. “finzione di non ingresso nel territorio”, che legittima i trattenimenti informali in frontiera fin qui condannati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Con il ricorso alle categorie di paesi terzi e di paesi di origine “sicuri”, a coloro che provengano da questi paesi si applicano regole procedurali diverse, che comprendono una limitazione generalizzata della libertà personale subito dopo il loro arrivo, uno svuotamento dei controlli giurisdizionali, ed un forte abbattimento dei diritti di difesa, riducendo al minimo le possibilità di dimostrare le ragioni della loro richiesta di protezione.
Queste politiche migratorie e le prassi che ne conseguono, sono manifestazione di un razzismo istituzionale che si basa sulla considerazione che a seconda del luogo in cui si nasce si può essere anche privati dei diritti fondamentali della persona riconosciuti nei paesi democratici (in prospettiva antitetica all’art.10 della Costituzione italiana) e sulla preoccupazione, che diventa fonte di leggi e regolamenti, che il diritto di asilo finisca per essere strumentalizzato dai cd. “migranti economici”, in assenza di canali legali di ingresso per lavoro, con una mobilità internazionale alimentata sempre più da situazioni di conflitto e da crisi ambientali.
A partire dal 2015, proprio quando si andava esaurendo la crisi migratoria derivante dalla fuga di milioni di siriani dal loro paese, l’Unione europea e gli Stati membri hanno fatto scelte operative, che hanno individuato nei potenziali richiedenti asilo il target ideale per contingentare gli ingressi, nella “gestione dei flussi migratori” in modo da dare agli elettorati una prova di efficienza nel limitare la presenza di stranieri nel territorio nazionale. Con l’approvazione del Piano europeo sulla migrazione e l’asilo, a maggio del 2024, in piena campagna elettorale, queste prassi amministrative, ormai consolidate negli anni anche a discapito della previgente legislazione europea, si sono tradotte in nuovi Regolamenti (Regulations) che i singoli paesi membri dovrebbero implementare nel prossimo biennio
2. Per restringere la portata del diritto di asilo, e per legittimare accordi con paesi terzi o di origine che non rispettano i diritti umani, ma che vengono definiti come “sicuri”, si ricorre a formulazioni astratte ed a procedure sempre più complesse che ampliano a dismisura la discrezionalità amministrativa, e ne rendono difficile un effettivo controllo giurisdizionale. Si tratta di definizioni che ricorrono nella legislazione europea, e che poi vengono riprese a livello nazionale, con distorsioni evidenti ,conseguenza delle diverse esigenze dei governi che ne fanno uso per conquistare consenso elettorale attraverso provvedimenti emergenziali, come i decreti legge, anche quando sembra davvero difficile configurare situazioni di emergenza. Una pratica diffusa in tutti gli Stati membri, con la quale si dovrà fare i conti anche dopo l’approvazione definitiva del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, che ha ratificato il frequente ricorso degli Stati a normative ed a prassi in deroga, a fronte si “situazioni di crisi”.
La nozione di Paese terzo sicuro è presente nella legislazione eurounitaria fin dalla direttiva 2005/85/Ce del Consiglio del 1° dicembre 2005. L’art. 29 prevedeva che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un elenco comune minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia UE perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere prevista da un atto derivato. Con la cd. direttiva procedure (dir. 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013), in vigore fino a quando non saranno implementate a livello nazionale le nuove Regulations (Regolamenti) previste dal Patto europeo sulla migrazione e l’asilo del 2024, dopo la individuazione della categoria di “paese di origine sicuro” si è precisato quando si può fare ricorso alla diversa nozione di “paese terzo sicuro”. La designazione di un Paese terzo come “sicuro” può comportare la possibilità per gli Stati di giudicare una domanda come inammissibile e dunque non procedere all’esame, adottando immediatamente nei confronti del richiedente un provvedimento di espulsione o di respingimento, fatti salvi i diritti di difesa, anche con effetto sospensivo. previsti dalle diverse legislazioni nazionali.
Al di là delle decisioni individuali, delle Commissioni territoriali, e quindi dei giudici sui singoli casi di ricorso, rimane cruciale il ruolo delle informazioni definite con l’acronimo COI in merito al paese di origine o di precedente residenza abituale di un richiedente asilo, che vengono utilizzate da queste Commissioni nelle procedure di valutazione delle richieste di protezione internazionale. Si tratta di informazioni che andrebbero costantemente aggiornate e rese pubbliche, da utilizzare anche nel caso di paesi di origine sicuri, senza alcun automatismo, ma solo al fine di verificare la fondatezza della istanza individuale di protezione, sulla base di tutti gli elementi di prova addotti dal richiedente. Elementi di prova che deve essere possibile fornire, sulla base di una informazione adeguata e del supporto di consulenti legali, anche nei casi di trattenimento amministrativo in frontiera, o negli altri luoghi destinati al trattenimento delle persone subito dopo il loro ingresso in Italia per ragioni di soccorso. E gli stessi elementi di prova dovrebbero essere utilizzabili nei centri di detenzione che l’Italia si propone di avviare in Albania. Come invece le procedure accelerate in frontiera previste da ultimo dal Decreto Cutro (legge 50/2023) non sembra possano garantire. Ma su queste procedure occorre attendere il giudizio della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
L’UNHCR, in una nota tecnica, evidenzia innanzitutto come la legge 50/2023 “ estende la preesistente procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da Paesi di origine designati come sicuri e dispone il trattenimento per quei richiedenti, tra coloro che siano stati avviati a tale procedura, i quali non abbiano consegnato il “passaporto o altro documento equipollente” o non prestino “idonea garanzia finanziaria”. Il trattenimento avverrà nei punti di crisi (hotspot) esistenti presso i maggiori luoghi di sbarco, nelle strutture analoghe ai punti di crisi che verranno individuate o nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) che si trovino in prossimità della frontiera. I minori e tutte le altre persone con esigenze particolari, come da disposizioni vigenti, sono esonerati da ogni forma di procedura accelerata”.
L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattutto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate. In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso.
Occorre dunque garantire comunque “un esame caso per caso” delle diverse istanze di protezione internazionale, anche quando provengano da persone che siano arrivate da un paese terzo “sicuro”, ed il richiedente che ha diritto ad una procedura individuale può addure un rischio grave in caso di rimpatrio e chiedere quanto meno il passaggio ad una procedura ordinaria, come si può imporre nei casi in cui sia mancata una corretta informazione iniziale, o non siano stati rispettati i tempi della procedura accelerata in frontiera. In questo senso la giurisprudenza italiana ha ormai adottato un orientamento consolidato che riduce al minimo l’operatività delle procedure accelerate in frontiera introdotte con il Decreto Cutro (legge n.50 del 2023), almeno fino quando non ci sarà l’atteso pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea, ed il conseguente giudizio della Corte di Cassazione sulla mancata convalida dei provvedimenti di trattenimento amministrativo, con riferimento alle prime procedure accelerate in frontiera nel centro Hotspot di Pozzallo-Modica, adottati dai giudici del Tribunale di Catania lo scorso anno.
Mentre la categoria di paese di origine “sicuro”, oltre che per respingere in modo sommario le richieste di protezione internazionale, attraverso procedure accelerate in frontiera, fornisce una base per concludere o rinnovare accordi di riammissione dei cittadini provenienti da questi paesi, espulsi o respinti, magari con modalità semplificate nel riconoscimento della identità e della nazionalità, la diversa categoria di paese terzo “sicuro”, viene utilizzata per giustificare gli accordi di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione illegale (law enforcement) , per il coordinamento delle attività di intercettazione in acque internazionali, e in prospettiva per esternalizzare le procedure di asilo e le prassi di detenzione amministrativa di coloro che richiedono protezione. Prospettiva fortemente sollecitata dal governo Meloni, che finora l’Unione europea non ha accettato con riferimento ai paesi di transito, che a loro volta si sono dichiarati fermamente contrari a ospitare sul propri territori strutture hotspot esternalizzate dall’Unione europea o da singoli Stati membri. Anche in questo caso non sono mancati interventi giurisprudenziali che, con riferimento allo sbarco di persone soccorse in acque internazionali, hanno esclcuso la possibilità di qualificare la Libia o la Tunisia come paesi terzi “sicuri”.
Talora le definizioni che abbiamo fin qui distinto si possono sommare, quando si propone, ad esempio con il Protocollo d’intesa Italia-Albania, la esternalizzazione delle procedure di asilo e del trattenimento amministrativo in un paese terzo “sicuro” (l’Albania), ma solo relativamente a persone provenienti da “paesi di origine sicuri”. E già qui si ricorre ad una evidente finzione giuridica, al di là della portata discriminatoria della normativa nazionale che attua il Protocollo, sottoponendo alla giurisdizione italiana persone che si trovano sul territorio di uno Stato terzo in un centro di transito (hotspot) comunque chiuso, o in un vero e proprio centro di detenzione (CPR), seppure queste aree siano state soltanto concesse in uso alle autorità italiane. Ma la cessione in uso non corrisponde alla totale cessione di sovranità, come ha precisato la Corte Costituzionale albanese, che in proposito ha ritenuto la legittimità del Memorandum Meloni-Rama, soltanto sulla base del riconoscimento di una giurisdizione “concorrente”, italiana ed albanese. Riconoscimento che porrà non pochi problemi nella fase attuativa, ammesso che ci si arrivi, anche di fronte ai giudici italiani, fino alla verifica di legittimità che si dovrà sollecitare davanti alla Corte costituzionale italiana.
3. Il governo italiano si vanta di avere costretto l’Unione europea a spostare l’attenzione dai problemi che interessano maggiormente agli Stati continentali, e dunque dai cd. “movimenti secondari” alla questione dei “movimenti primari”, con particolare riferimento alle frontiere esterne del Mediterraneo. La prospettiva che si persegue, magari in collaborazione con l’OIM e con l’UNHCR, che però hanno posizioni di garanzia molto precise sul punto, è di favorire la “deportazione” in questi paesi, ritenuti “sicuri”, di immigrati irregolari di diversa nazionalità, dopo il diniego sulla domanda di protezione, alla fine della “procedura accelerata in frontiera”. Sfugge evidentemente alla premier Meloni, o si preferisce nascondere, la situazione dei diritti umani nei paesi nordafricani di transito, come l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, che pure ministri e sottosegretari italiani hanno intensamente frequentato in questi ultimi mesi.Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. In diversi paesi terzi “sicuri”, in particolare nel caso della Tunisia, oltre alla repressione rivolta ai migranti irregolari è cresciuta la persecuzione di attivisti, giornalisti e avvocati che ne difendevano i diritti fondamentali, o che si limitavano ad esprimere soltanto opinioni critiche al riguardo.
Gli immigrati subsahariani rastrellati a Sfax ed in altre zone delle regioni meridionali sono stati prima espulsi verso la terra di nessuno, in pieno deserto tra la Tunisia e la Libia, o l’Algeria, quindi, dopo che la deportazione aveva già cominciato a produrre le prime vittime, sono stati in parte ripresi, arrestati e rimangono attualmente sottoposti ad un severo regime detentivo, se non vengono gettati per strada come merce di scarto. Chi ha osato criticare queste prassi di polizia è finito sotto processo, ed in alcuni casi ci sono stati provvedimenti restrittivi in danno di difensori dei diritti umani. Le manifestazioni di una parte della popolazione a supporto dell’autocrate Saied non possono coprire arresti arbitrari e trattamenti inumani e degradanti che dovrebbero portare alla sospensione del Memorandum UE-Tunisia ed al congelamento dei rapporti diplomatici e commerciali con la Tunisia. Ma è ben difficile che l’attuale governo italiano proceda in questa direzione. Anche se la sorte dei potenziali richiedenti asilo in quel paese, che non applica la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, appare segnata.
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