“SOS! SOS! SOS!  Lanciamo l’allarme per il 20 maggio, data della nuova udienza per Julian Assange.” Così ha postato su Instagram Stella Assange, moglie del giornalista ed editore australiano, chiedendo ai suoi sostenitori nel mondo di raggiungerla davanti all’Alta Corte britannica a Londra la mattina del 20, oppure di manifestare ognuno nella propria città.  Le autorità britanniche devono capire, ha spiegato la quarantenne avvocata sudafricana, che il mondo li sta guardando mentre decidono se accogliere o meno l’appello di Assange contro la sua estradizione negli Stati Uniti dove rischia fino a 175 anni di carcere.  La decisione doveva avvenire il 21 febbraio, il primo fatidico “Giorno X”, ma, a causa della richiesta della Corte di acquisire ulteriori documenti, è stata rinviata al 26 marzo e adesso al 20 maggio.  Questa volta sembra quella buona.

A Napoli ci sarà un presidio la vigilia, domenica 19 maggio dalle 10.30 alle 13.30, in piazza Dante.  Mentre un attivista spiegherà ai passanti la posta in gioco a Londra – non soltanto la libertà di Julian ma la libertà di stampa e di espressione per i giornalisti e per i comuni cittadini in tutto il mondo – un altro attivista, indossando la maschera di Assange, rimarrà seduto in una cella disegnata col gesso sul pavimento, grande (anzi, piccola: 3m x 2m) quanto quella londinese in cui il fondatore di WikiLeaks si trova imprigionato da oltre cinque anni, pur senza condanna.

Anche a Roma ci sarà un presidio la vigilia (19/5), dalle ore 17 alle ore 19, davanti al Pantheon in piazza della Rotonda.  E anche qui verrà allestita una cella 3m x 2m: ma, in questo caso, si tratterà di una gigante tela dell’artista Chiara Bettella raffigurante Julian, dapprima imprigionato e poi liberato; i passanti potranno apporre le loro firme sulla tela.  Poi, il giorno dopo (lunedì, 20/5), dalle 15 alle 16.30, Free Assange Italia e Free Assange Roma terranno una conferenza stampa presso la Federazione Nazionale della Stampa Italia, nella sua sede di via delle Botteghe Oscure 54 (primo piano), per poter commentare a caldo il verdetto.  Vincenzo Vita, garante dell’Articolo 21, modererà. Un Livestream sul canale youtube.com/@StellaAssange consentirà ai giornalisti presenti in Sala di sentire in tempo reale anche le reazioni di Stella Assange, all’uscita dal tribunale.

Diversi altri presidi in Italia sono stati annunciati per il 19 maggio, allo scopo di richiamare l’attenzione del pubblico italiano sull’importante udienza londinese: a Bologna in piazza del Nettuno dalle 16.30 alle 19, organizzato dal Gruppo Assange Bologna; a Genova in Largo Pertini, dalle 17 alle 19; a Padova dalle 17 alle 19, in Piazzetta della Garzeria; a Catania dalle 17.30 alle 19.30 alla Prefettura di via Etnea; a Torino dalle 17 alle 19 in piazza Castello. A Bari, invece, il presidio si terrà il 18 maggio, ore 18.30, in Via Sparano (angolo libreria Laterza).  Questi ultimi cinque presidi sono promossi da Free Assange Italia.  Altri presidi ancora, ad esempio a Ferrara, sono in via di definizione.

A Milano, per il 20 maggio, il Comitato per la Liberazione di Julian Assange – Italia aveva previsto l’installazione, nel Parco Sempione, della statua Anything to Say di Davide Dormino, un monumento che raffigura Julian Assange accanto ad Edward Snowden e Chelsea Manning. Ma all’ultimo momento il Comune ha negato l’uso del suolo pubblico.  Gli attivisti milanesi stanno lavorando a soluzioni alternative che appariranno su https://linktr.ee/assangeitalia .

Tornando all’SOS di soccorso lanciato da Stella Assange in questi giorni, la sua supplica di restare vigili durante l’udienza londinese trova una giustificazione obiettiva nel poderoso documento rilasciato da Amnesty International lo scorso 3 maggio, intitolato: “Gli impedimenti all’accesso all’udienza di Julian Assange gettano un’ombra sulla trasparenza della giustizia britannica.”  L’ONG, impegnata nella difesa dei diritti umani, ha rilevato infatti una serie di abusi avvenuti nelle udienze precedenti, augurando che non si ripeteranno questa volta.  

“Amnesty International è profondamente amareggiata,” recita l’introduzione del documento, “a causa dei notevoli ostacoli che il suo team e altri osservatori hanno incontrato nel tentativo di monitorare le udienze nei tribunali del Regno Unito nel caso di Julian Assange. Tali impedimenti comprendono ostacoli all’accesso ai posti in aula o in tribunale; l’esclusione dalla visione dei procedimenti online tramite livestream; difficoltà tecniche con la qualità dell’audio durante l’intero procedimento; istruzioni confuse e contraddittorie da parte dell’amministrazione giudiziaria; personale di sicurezza ostile e aule di giustizia di dimensioni insufficienti per un caso di tale rilevanza internazionale.” Il documento poi sottolinea “l’incapacità assoluta” delle autorità britanniche “di riconoscere il ruolo vitale che svolgono gli osservatori giudiziari” nei processi. 

Amnesty conclude chiedendo all’amministrazione giudiziaria del Regno Unito di “garantire che gli osservatori abbiano accesso di persona o online ai procedimenti dell’Alta Corte il prossimo 20 maggio” e di “agevolare gli osservatori delle ONG e gli altri esperti, in linea con la norma internazionale emergente che riconosce il ruolo vitale di tali osservatori nell’interesse di una giustizia aperta.”


Ma quali sono i punti che i giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson devono dirimere il 20 maggio?  

Essenzialmente, per entrambi i magistrati, Assange potrà essere estradato negli Stati Uniti senza pregiudizio per i suoi diritti umani a condizione che il governo statunitense fornisca due garanzie: 

(1.)  che Assange non rischierà una condanna alla pena capitale – e il Dipartimento di Giustizia USA potrà facilmente asserire che una pena massima di 175 anni non è la pena di morte e nemmeno, tecnicamente parlando, un ergastolo; 

(2.) che Assange potrà avvalersi di tutti i diritti processuali di cui godono i cittadini oltre atlantico, ivi compreso il ricorso al Primo Emendamento della Costituzione statunitense. E qui casca l’asino.

Infatti, questo emendamento, che tutela la libertà di espressione, è proprio quello invocato dalla Corte Suprema statunitense nel 1971 per assolvere un imputato (l’editore del New York Times) che, come Assange, aveva rivelato sulla stampa – per tutelare il diritto di sapere del pubblico – documenti governativi segretati.  Ora il Dipartimento di Giustizia USA sta cercando di aggirare quella decisione della Corte Suprema incriminando Assange nei termini dell’Espionage Act del 1917 che, equiparandolo ad una spia e non ad un giornalista, non gli consente di invocare il primo emendamento per giustificare una fuga di notizie, anche se tale fuga sarebbe nell’interesse comune.

Tutto si gioca, dunque, sull’applicabilità o meno del Primo Emendamento.  Se gli Stati Uniti forniscono “rassicurazioni” che Assange potrà comunque invocare quella tutela, nonostante i divieti dell’Espionage Act e nonostante il fatto che egli non sia cittadino statunitense, non ci sarà violazione dei suoi diritti umani, la richiesta di fare appello avanzata dagli avvocati di Julian sarà rigettata e il governo britannico avrà la facoltà di estradare Julian seduta stante.  Gli Stati Uniti hanno avuto fino al 16 aprile per fornire alla Corte le loro rassicurazioni e hanno rispettato i termini.

Se invece le rassicurazioni fornite alla Corte vengono considerate insufficienti – e Stella Assange, che ha potuto leggerle, le ha definite del tutto evasive (“weasel words”) – la corte ha la facoltà di respingerle e contestualmente di accogliere la richiesta di Julian di riaprire il suo caso. Ciò comporterebbe la sospensione della richiesta di estradizione.  Da un lato, sarebbe una vittoria, perché Julian sarebbe (momentaneamente) salvato dalle grinfie della giustizia a stelle e strisce; dall’altro, però, egli rimarrebbe incarcerato in un minuscolo buco nero per non si sa quanto tempo ancora.  A quel punto, gli attivisti che il 18, 19 e 20 maggio si riuniranno nelle principali piazze del mondo, dovrebbero cominciare a chiedere per Assange la detenzione domiciliare. Ciò gli permetterebbe almeno di uscire dall’isolamento carcerario totale e di riunirsi con la sua famiglia in attesa che il nuovo processo d’appello si concluda.

 

Vincenzo Vita, articolo pubblicato sul Manifesto