> MERIDIOGLOCALNEWS – RASSEGNA SULLE SOGGETTIV₳ZIONI METICCE <
Basta armi a Israele! La Rete Italiana Pace e Disarmo si unisce alla voce di oltre 250 organizzazioni di tutto il mondo che chiedono di fermare tutti i trasferimenti di armamenti utilizzati per alimentare la crisi a Gaza
attivisti per i diritti umani, esperti sul commercio di armi, operatori sanitari, organizzazioni di base, attivisti per il clima, leader religiosi, giornalisti, movimenti, accademici, professionisti legali e studenti, una coalizione globale unita nella richiesta del cessate il fuoco a partire dallo stop di tutte le forniture militari
Una volontà espressa con chiarezza nell’appello sottoscritto da oltre 250 organizzazioni internazionali a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite affinché smettano di alimentare la crisi a Gaza, scongiurando ulteriori catastrofi umanitarie e perdite di vite civili, interrompendo immediatamente il trasferimento di armi, parti e munizioni a Israele e ai gruppi armati palestinesi. Armamenti che corrono un alto rischio di essere utilizzate per commettere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o dei diritti umani. I bombardamenti e l’assedio di Israele stanno privando la popolazione civile delle basi per la sopravvivenza e, in queste ore più che mai, stanno rendendo Gaza inabitabile. Oggi la popolazione civile di Gaza si trova ad affrontare una crisi umanitaria di gravità e portata senza precedenti. Il documento della società civile internazionale è stato rilanciato lo scorso 2 maggio con una “Giornata di mobilitazione internazionale” che oggi viene rafforzata: ”I bombardamenti e l’assedio di Israele stanno privando la popolazione civile del minimo indispensabile per sopravvivere e stanno rendendo Gaza inabitabile” si legge nella lettera congiunta “oggi la popolazione civile di Gaza si trova ad affrontare una crisi umanitaria di gravità e portata senza precedenti”. A fronte di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco, il governo di Israele continua a usare armi e munizioni esplosive in aree densamente popolate, con enormi conseguenze umanitarie per la popolazione di Gaza. L’attività militare israeliana ha distrutto una parte sostanziale delle case, delle scuole, degli ospedali, delle infrastrutture idriche, dei rifugi e dei campi profughi di Gaza. La natura indiscriminata di questi bombardamenti e la tipologia sproporzionata di danni ai civili che essi causano abitualmente sono illegali e possono costituire crimini di guerra. Con l’aggravarsi della crisi, alimentata dalla proliferazione delle armi, è indispensabile chiedere che i Governi di tutto il mondo (Italia compresa) non si rendano complici di queste violazioni del diritto internazionale trasferendo armi a Israele. L’impegno assunto dalla società civile mira dunque a mobilitare una solidarietà globale e a chiedere atti di responsabilità e umanità ai governi coinvolti nel commercio di armi.
per approfondimenti su ecoinformazioni
Report povertà sanitaria, la radiografia di un diritto negato: “Solo chi ha i soldi si cura”
Adoc e Eures fanno il punto sullo stato del servizio nazionale della sanità e sulla tutela della salute, a partire dal minimo storico stanziato per la spesa pubblica: solo il 6,2% del PIL
«Lo stato di salute della sanità in Italia è gravissimo e rischia di andare in coma. Non possiamo più ignorare il fatto che sempre più persone, soprattutto le più vulnerabili, stanno rinunciando alle cure a causa della diminuzione della spesa sanitaria e dell’inasprimento delle proprie condizioni economiche». Questo è quanto drammaticamente ha rilevato Anna Rea, presidente nazionale dell’Adoc, sottolineando il fenomeno [documentato anche da Pressenza] secondo cui “Milioni di persone si trovano costrette a scegliere tra la propria salute e altre necessità basilari, come un’alimentazione sana e l’istruzione dei propri figli. Tutti i cittadini hanno un eguale diritto alla salute, ma nel nostro Paese non è più così: solo chi ha soldi si cura e ciò determina disuguaglianze economiche e sociali insanabili». Secondo l’Adoc – che ha lanciato la campagna No alla povertà sanitaria. La salute non è un privilegio ma un bisogno primario – «serve una rivoluzione culturale per comprendere che la sanità non rappresenta solo un costo, ma un diritto primario che deve essere garantito a tutti, così come previsto dalla nostra Costituzione».
leggi il report su helpconsumatori
Ventuno membri degli equipaggi di Jugend Rettet, Save the Children e Medici Senza Frontiere sono stati prosciolti dal giudice dell’udienza preliminare di Trapani, perché “il fatto non sussiste“
Il 19 aprile si è concluso il più grande processo contro la solidarietà in mare, con le Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale sul banco degli imputati
Questa vittoria arriva dopo sette anni di calvario, costato milioni di euro di soldi pubblici, oltre quaranta comparizioni in aula e il deterioramento dell’imbarcazione Iuventa, sequestrata e lasciata in stato di abbandono nel porto di Trapani dal 2017. Ma come è nata la criminalizzazione delle Ong e della solidarietà in mare? Perché salvare vite in mare è una pratica così osteggiata dalle autorità italiane ed europee? Nel 2013, dopo l’indignazione e le proteste per la strage di Lampedusa del 3 ottobre, che vide 366 vittime accertate a causa del naufragio, lo stato italiano lancia l’operazione militare e umanitaria Mare Nostrum: un ingente impiego di mezzi e risorse statali (circa 9,5 milioni di euro mensili) per “garantire la salvaguardia della vita dei migranti in mare e assicurare alla giustizia coloro che lucrano sul traffico illegale di migranti”. In tre mesi di operazioni “sar” (search and rescue) in acque internazionali, anche oltre le trenta miglia dalle coste nazionali e fino in prossimità di quelle libiche, Mare Nostrum porta al salvataggio di 189.741 persone. […] Le successive operazioni europee nel Mar Mediterraneo abbandonano definitivamente l’aspirazione umanitaria, concentrandosi sui pattugliamenti marittimi e aerei entro le trenta miglia dalle coste europee con l’obiettivo principale di contrastare “il traffico illecito di esseri umani”. Il vuoto lasciato dal mancato soccorso da parte delle autorità europee, di fronte al moltiplicarsi delle morti in mare, spinge la società civile europea ad attivarsi, portando alla formazione delle prime navi di ricerca e soccorso in mare da parte delle Ong. L’impossibilità di svolgere attività di polizia sulle imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie blocca di fatto le indagini della Dnaa, che per questo fa sapere di ritenere necessario “disciplinare l’intervento delle navi Ong”. È in questo contesto che nel 2017 si inserisce Marco Minniti, allora ministro degli interni del governo Gentiloni. Sono gli anni in cui Salvini, grazie allo spin doctor Morisi, diventa una star su Facebook, sostenendo l’hashtag #StopInvasione e partecipando a proteste fuori dai centri di accoglienza; gli anni in cui le bufale sul web, come i trenta euro al giorno regalati ai richiedenti asilo, i “taxi del mare” o “i migranti negli hotel di lusso mentre gli italiani per strada”, trovano sempre più spazio non solo sui social ma anche su rinomate testate di destra e popolari talk show del palinsesto Mediaset. Da un lato, nasce la necessità di eliminare un osservatore neutrale scomodo in una zona di mare dove spesso vengono violati i più basilari diritti umani; dall’altro, la pressione dell’opinione pubblica sul tema migratorio spinge il Partito democratico a fare una scelta critica: piegarsi alla narrazione della destra sulla fantomatica invasione, cercando di bloccare i flussi migratori alla partenza. Da qui la celebre frase di Minniti: “I flussi epocali vanno governati, è a rischio la tenuta democratica dell’Italia“.Si decide quindi di affrontare il fenomeno su due fronti principali: in Libia e in mare.
articolo integrale su Monitor Italia
Greenpeace: «L’Italia spenderà altri 840 milioni di euro per la difesa militare delle fonti fossili. Così il governo aggrava la crisi climatica e il rischio di conflitti armati»
«Nonostante il peggioramento della crisi climatica e la gravissima escalation dei conflitti internazionali – Greenpeace denuncia che – la Camera si appresta ad approvare tutte le operazioni militari italiane a protezione delle rotte del gas e del petrolio avviate negli anni scorsi, dopo aver varato la nuova operazione europea Aspides ai primi di marzo»
Secondo i calcoli di Greenpeace Italia, «Nel 2024 l’Italia spenderà circa 840 milioni di euro per tutelare militarmente attività di ricerca, estrazione e importazione di fonti fossili: in pratica, il 60% dell’intero budget per le missioni militari è destinato a operazioni che hanno anche questo compito. Una spesa che in termini assoluti è in costante crescita dal 2019, al contrario di quanto dovrebbe accadere per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica». In particolare, la relazione governativa sulle missioni internazionali — deliberata dal Consiglio dei ministri il 26 febbraio 2024 e al voto oggi — collega inequivocabilmente la nuova missione militare europea Aspides al nostro approvvigionamento energetico, mettendo in relazione il ruolo prioritario assunto dal «tema della sicurezza energetica» con le «minacce alla sicurezza della navigazione nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden». In pratica, come denunciato da Greenpeace Italia già in gennaio, l’impegno militare italiano nel Mar Rosso punta soprattutto a difendere il nostro import di gas e petrolio. Sofia Basso, research campaigner Pace e disarmo di Greenpeace Italia, ricorda che «Da anni Greenpeace denuncia l’impiego delle Forze armate a tutela degli interessi delle compagnie dell’oil&gas: una scelta che aggrava il disastro climatico e aumenta le tensioni in aree già instabili. La crescita della spesa per le missioni militari “fossili” conferma il fallimento della transizione ecologica del nostro Paese: invece di puntare sulle rinnovabili, il governo continua a investire su gas e petrolio». Greenpeace Italia chiede al governo italiano di «interrompere la protezione militare delle fonti fossili e di tutelare la sicurezza energetica di cittadine e cittadini investendo in fonti rinnovabili».