Con le elezioni del Parlamento Europeo alle porte il prossimo giugno, gli sguardi generalmente strabici dei cittadini del cerchio di 12 stelle dorate su sfondo blu si scostano dai loro Paesi e guardano alle decisioni assunte da Bruxelles. In particolare la società civile attenta alla cooperazione internazionale fa recentemente sentire la propria voce su un tema già affrontato in sede europea: quello dell’ingresso in area UE dei cosiddetti “minerali insanguinati”, quali il “coltan”, la miscela di columbite-tantalite proveniente da territori di conflitti armati, in particolare dal Congo Kinshasa. Le ragioni etiche erano state sinora sacrificate dinanzi alla domanda di questo bene primario, atto ad assicurare il benessere dei cittadini europei con smartphone, airbag, playstation, automobili elettriche, necessario, insomma, all’attuale tecnologia occidentale.
Tale approccio non è stato recentemente modificato, tanto che il 19 febbraio scorso è stato stipulato un accordo con il Ruanda che appare più che ambiguo. L’accesso ai minerali “critici” e il supporto europeo alla creazione di infrastrutture al commercio di questi materiali presuppongono che il Ruanda sia un Paese estrattore quando invece risulta un attore manipolatore della principale milizia ribelle, l’M23, che da anni nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo sfrutta le risorse materiali del territorio con violenze inaudite per la popolazione locale. Anche di recente, l’ONU ha dichiarato che il movimento M23 è manovrato e sostenuto dal Ruanda e perfino composto anche da sue truppe. Una petizione con 2000 firme è già attiva per chiedere il ritiro dell’accordo UE-Ruanda. Altri milioni di cittadini sono all’oscuro delle guerre e delle violenze generate dalla sottrazione (più che dall’acquisto) di questi minerali dal ricchissimo suolo congolese.
Non si tratta del solo caso in cui l’Unione Europea ha voltato le spalle ai suoi valori in termini di tutela dei diritti umani e supporto allo stato di diritto. Di nuovo l’interesse di mercato ha guidato Bruxelles nella definizione dell’Accordo bilaterale con il Marocco nel 2013, rinnovato nel 2019, per l’importazione nel Mercato Unico Europeo di prodotti agricoli e di mare di origine marocchina. L’accordo è poi stato bocciato dal Tribunale di Giustizia dell’UE nel 2021 in quanto imponeva obblighi anche al popolo saharawi, senza che questo fosse interpellato né coinvolto nell’accordo. La complessa questione legata all’autodeterminazione del Saharawi è, dunque, stata accantonata dinanzi a importazioni europee dal Marocco pari a 15,2miliardi di euro che fanno di Rabat il principale partner commerciale europea nel continente africano.
L’accordo con la Libia in materia di immigrazione non merita che parole di altissimo sdegno per le condizioni disumane che i migranti subiscono nel Paese, con prove di arresti arbitrari, omicidi, torture, stupri, schiavitù, schiavitù sessuale, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni. A questi crimini contro l’umanità, denunciati in più occasioni, si uniscono i timori per la tenuta di uno Stato a pezzi, che il flusso economico di fondi dall’UE non ha migliorato affatto ma che piuttosto, allo stato attuale, il ritiro di quei fondi farebbe implodere del tutto. Nel 2023 l’Ue ha siglato un memorandum d’intesa con la Tunisia da ben 700 milioni di euro. Un analogo accordo è stato stipulato con la Mauritania per 210 milioni di euro secondo una strategia di contenimento dei flussi migratori che, ancora una volta, è affidata governi che non hanno finora dato prova di rispettare i diritti umani dei migranti, e neanche quelli dei propri cittadini.
Recentemente, a metà marzo, è giunto l’accordo dell’UE con l’Egitto dal valore di 7,4 miliari di euro: 200 milioni saranno indirizzati a controllare i flussi migratori, parliamo di spiccioli a confronto dei 5 miliardi in prestiti agevolati per sostenere riforme macroeconomiche, 600 milioni di finanziamenti a fondo perduto e 1,8 miliari di investimenti addizionali delle istituzioni finanziarie UE. Un supporto dunque all’Egitto per ridurre la crisi economica in atto e renderlo un partner affidabile che tuttavia, come evidenzia Claudio Francavilla di Human Rights Watch, “non affronta il declino dello Stato di diritto che contribuisce alle turbolenze economiche e allontana gli investitori dal Paese”.
Volendo tirare delle linee più generali, “l’approccio europeo, al di là della narrativa ufficiale che accredita l’immagine di una partnership di tipo paritario, rischia di rimanere di tipo paternalistico” spiega Valeria Fargion, politologa dell’Università di Firenze. Anche “la strategia globale con l’Africa, lanciata nel 2020 dall’UE, punta su priorità che riflettono interessi europei più che africani (transizione verde, trasformazione digitale, sviluppo sostenibile)”.