“Esortiamo Levi Strauss & Co. ad assumersi la responsabilità della sicurezza dei suoi lavoratori firmando l’International Accord. Levi’s, invece, continua a nascondersi dietro il proprio programma aziendale di autoregolamentazione, senza supervisione indipendente, che non prevede verifiche imparziali e la partecipazione dei lavoratori”, ha dichiarato Kalpona Akter, presidente della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation e fondatore del Bangladesh Centre for Worker Solidarity.

Sul sito della Levi’s è enfatizzato il valore della libertà, con foto di varie manifestazioni e della caduta del Muro di Berlino, ma pare debba ancora cadere il muro che separa i lavoratori, soprattutto donne, dalla giusta retribuzione e dalla sicurezza sul lavoro nelle fabbriche, soprattutto quelle asiatiche, produttrici degli articoli del marchio. Il vantato impegno aziendale del giusto ripudio della segregazione razziale e della discriminazione della comunità LGBTQ+ contrasta col rifiuto dell’azienda di firmare un accordo internazionale che mette anche il lavoro (la sua giusta retribuzione e sicurezza) al centro dei diritti fondamentali.

Un’impostazione “progressista”, quella di Levi’s, tipica di alcune aziende degli USA, come ad esempio Starbucks, che si arresta però di fronte alle iniziative per il miglioramento collettivo delle condizioni di lavoro.

Su questi contenuti si è svolta. la scorsa settimana una partecipata manifestazione nel centro di Chicago, nel quartiere dello shopping “Magnificent Mile”, organizzata dal sindacato Workers United che rappresenta 1.200 lavoratori del produttore di abbigliamento.

L’obiettivo dell’iniziativa è quello di convincere il “gigante dei jeans” a firmare l’accordo internazionale, a cui hanno finora aderito quasi 200 aziende di moda. Levi’s ha sede principale a San Francisco, negozi in 110 nazioni e stabilimenti di produzione in molti Paesi –  Stati Uniti, Cina, Giappone, Romania, Bulgaria, Turchia, Vietnam, Pakistan, Sri Lanka, India, Italia, Cambogia, Polonia, Egitto – e anche Bangladesh.

La manifestazione di appoggio agli addetti globali del marchio, e in generale alla tutela globale dei lavoratori dell’abbigliamento, si è svolta quasi 11 anni dopo l’eccidio del Rana Plaza in Bangladesh, una nazione dove dal 2005 almeno 700 lavoratori sono morti negli incendi di capannoni industriali. Nel 2013, un catastrofico crollo dei sei piani di un complesso di abbigliamento industriale ha portato alla morte di 1.135 lavoratori e al ferimento di 2.515, a causa del rifiuto dei proprietari della fabbrica di evacuare i locali, malgrado le crepe sempre più presenti nei muri portanti. La fabbrica produceva abbigliamento per vari distributori, come Walmart, Benetton, Zara, The Children’s Place, Joe Fresh, Matalan, El Corte Inglés (ma non Levi’s).

Il Bangladesh è oggi il secondo esportatore di abbigliamento al mondo a causa delle bassissime retribuzioni e dell’insicurezza degli impianti. Ed è insufficiente il tentativo eroico dei soli lavoratori dell’abbigliamento di quel Paese, la maggior parte dei quali sono donne, di organizzare Sindacati per aumentare i salari e la sicurezza sul lavoro (che è in genere del tutto “casual”, come gli abbigliamenti ivi realizzati, venduti nel mondo).

Il sindacato Workers United, che negli Stati Uniti e in Canada rappresenta oltre 1.200 lavoratori di Levi’s in cinque centri di distribuzione, ha dunque lanciato la campagna malgrado il NAFTA, l’accordo di libero scambio nordamericano firmato nel 1992 dall’allora presidente degli USA Billy Clinton, abbia tuttora effetti disastrosi nella possibilità di tutela di molti settori di lavoratori, come quelli tessili, dei Paesi del Nordamerica.

L’iniziativa a favore dei lavoratori di Levi’s a livello globale è sostenuta anche dall’importante Federazione del Lavoro di Chicago.

Fonti principali:

C.Harrison, No justice, no jeans: Unions fight for Levi’s workers around the world, People’s World, 17.4

https://internationalaccord.org/

https://twitter.com/chicagolabor/status/1780369218380136681