Devo dire che per chi come me ha seguito tutto il processo contro Riace e Lucano, leggere queste motivazioni della sentenza d’appello è un momento di vero piacere. Certo, il piacere è prima di tutto di vedere che l’assoluzione dai reati che il tribunale di Locri aveva confermato ha solide basi, che l’esperienza di Riace, condannata in primo grado come associazione a delinquere, viene restituita al suo significato di esperienza innovativa di accoglienza e integrazione, che l’azione del suo sindaco Domenico Lucano viene integralmente riabilitata, riconoscendo che “mai ha neppure pensato di guadagnare sui rifugiati“ e ha sempre perseguito un ideale di integrazione, conforme peraltro alle finalità proprie del sistema Sprar.
Ma è anche il piacere di trovare in questa sentenza un ragionamento che si pone l’obiettivo di rendere conto di quanto successo nel dibattimento processuale, proprio quello che era mancato del tutto nella sentenza di primo grado del tribunale di Locri. Il piacere di vedere un collegio che rifiuta la via ibrida di affidarsi a intercettazioni che possono essere interpretate in vari modi, che ne ridimensiona fortemente l’utilizzabilità e le analizza nel loro contesto di senso, di relazioni, di vita. Un collegio che si prende la responsabilità di giudicare cosa è stato provato e cosa no, di riconoscere che “manca la prova” dell’associazione a delinquere e dell’appropriazione patrimoniale; di tirare le fila delle varie voci e testimonianze, incrociandone le risultanze; che si chiede insomma di dare un senso alle cose emerse e di trarne le conseguenze logiche.
La sentenza d’appello accoglie praticamente tutti i punti principali sollevati dal ricorso delle difese e lancia critiche esiziali alla sentenza di primo grado; fin dall’inizio, quando ne critica la dimensione elefantiaca “che offusca le ragioni della decisione”, oltre che “l’integrale ed acritica trascrizione delle prove”. Un incipit secco, che non lascia dubbi sul diverso approccio seguito dal collegio d’appello e apre una distanza abissale con i giudici di Locri.
Mi fa piacere anche ritrovare nella sentenza tutti gli elementi che mi avevano colpita, sia nel mio monitoraggio del processo, che nella lettura della sentenza del collegio di Locri. E’ molto confortante constatare che, nonostante il diritto processuale sia molto tecnico, se ci si pone dal punto di vista di dare un senso alle cose che si svolgono nel processo anche un osservatore privo di conoscenze tecniche riesce a capire quanto avviene. E’ confortante proprio dal punto di vista della cittadinanza e dei meccanismi della democrazia, del rapporto con la giustizia. Se il processo politico – e questo è stato in tutto e per tutto un processo politico, come proprio questa sentenza nello smontare la sentenza di Locri dimostra – è un processo che capovolge il senso delle cose e crea un divario fra giustizia e sentire comune, fa davvero piacere che alla fine quel capovolgimento sia crollato rovinosamente, che la verità storica e morale dell’esperienza di Riace sia stata riconosciuta, che Lucano sia stato riconosciuto come mosso solo dai suoi ideali di solidarietà e umanità, che quel divario fra quello che tutti sappiamo di Riace e la giustizia si sia ricomposto.
Rimane la sofferenza inflitta a una comunità di persone, la distruzione di un’esperienza innovativa e l’impunità di tutti quelli che questa distruzione l’hanno attuata, con strumenti politici o giudiziari, deliberatamente, contro ogni senso comune.