in Memoria della strage del 18 aprile 2015
e di tutte le vittime delle stragi per abbandono in mare
Negli scorsi giorni si era appreso da fonti giornalistiche di un documento proveniente dalla Centrale di Coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC), secondo il quale, in base a “tavoli tecnici interministeriali” che si sarebbero tenuti nel 2022, si stabilivano regole di ingaggio per le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali che limitavano gli interventi immediati dei mezzi della stessa Guardia costiera al di fuori del limite delle acque territoriali (12 miglia dalla costa), ove non fosse “dichiarata” una situazione SAR (dunque a seguito dell’avvio di una attività di ricerca e salvataggio). Con una nota del 16 aprile, il Centro operativo nazionale Guardia Costiera (IMRCC), precisa che: “La gestione del fenomeno migratorio in mare, a causa della sua complessità, ha da sempre richiesto un coordinamento continuo tra ogni Autorità che opera in tale scenario, non solo legato alle attività in mare. Tale coordinamento avviene attraverso il “tavolo tecnico di coordinamento” istituito nell’ambito dell’Accordo Tecnico-Operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina, previsto sin dal 2003 con il Decreto Interministeriale del 14 luglio “Disposizioni in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina”.
Secondo quanto comunicato oggi dalla Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC), “il documento in questione del 2022 è stato quindi originato a seguito di uno di questi periodici tavoli operativi, per informare i Comandi territoriali dipendenti dei punti trattati e delle determinazioni cui si era giunti. Nel dettaglio, le tematiche trattate riguardavano esclusivamente aspetti di polizia afferenti alla “zona contigua” e al potere di polizia nella fascia tra le 12 e le 24 miglia dalla costa e dunque non incideva (come mai è accaduto e mai potrebbe accadere) sulla funzione del soccorso e della salvaguardia della vita umana in mare, che è di diretta competenza della Guardia Costiera ed è disciplinata da norme di legge internazionali e nazionali, chiare ed oggettive”. Si deve riconoscere come sia assolutamente vero che i ”tavoli tecnici di coordinamento” delle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare via mare, e delle attività di ricerca e salvataggio, che si possono verificare pure in questo ambito, esistevano da molti anni e non sono certo una invenzione del governo Draghi nel 2020.
Il Comunicato più recente emesso dalla Guardia costiera italiana tende però ad escludere un indirizzo politico per ridurre l’impegno dei suoi mezzi al di fuori delle acque territoriali, con la surrettizia distinzione tra “eventi migratori” e eventi di ricerca e salvataggio (SAR), una distinzione che non ha alcuna base legislativa nel diritto nazionale, nella normativa dell’Unione europea e nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Una classificazione degli “eventi connessi al fenomeno migratorio” che risulta frutto di una mutevole decisione politica, adottata da diversi “Tavoli tecnici interministeriali” dopo la legge Bossi-Fini del 2002, che modificava l’art. 11 del Testo Unico sull’immigrazione, con un accentramento dei poteri sul ministro dell’interno, sia pure di concerto con altri ministeri. Viene quindi in rilievo, in particolare, il potere di coordinamento incentrato sulla Direzione centrale della polizia di frontiera e successivamente, negli anni più recenti, sul Nucleo centrale di coordinamento (NCC) una struttura interforze, presso il Viminale, che garantisce anche i collegamenti in tempo reale con Frontex e con Eurosur. Una rete burocratica ma anche operativa, a livello interministeriale, che si è venuta a consolidare nel corso degli anni, e che è stata accertata anche nel corso di diversi procedimenti penali, dai processi contro le ONG che operavano soccorsi in acque internazionali, fino al processo Open Arms/Salvini a Palermo ed al caso oggetto del processo Libra a Roma, concluso con la prescrizione dei reati, ma con una precisa ricostruzione della catena di comando operativa, e delle correlate responsabilità, al tempo della strage, nell’ottobre del 2013. Nel corso degli anni si è passati da una maggiore responsabilizzazione della Marina militare sempre presente in acque internazionali, alla riduzione progressiva dell’impegno operativo della Guardia costiera, documentato nella mail pubblicata da varie fonti giornalistiche negli scorsi giorni. Sullo sfondo i tentativi ricorrenti di bloccare le navi del soccorso civile, prima con i procedimenti penali, poi con le misure di fermo amministrativo. Con una precisa linea di continuità al Viminale, dalla gestione Salvini del 2018-2019, poi con la ministro Lamorgese, adesso con il ministro Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini nel 2019, e rimasto in questo ruolo con il governo Draghi e la stessa ministro Lamorgese al ministero dell’interno.
Dopo il documento risalente al 2022 della Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC), recentemente diffuso dai media, e il successivo comunicato con il quale si cerca di escludere l’esistenza di un “livello politico” nella gestione dei controlli alle frontiere marittime esterne e in acque internazionali, non si possono smentire dati di fatto, fonti normative, e assetti istituzionali che sono stati accertati dall’autorità giurisdizionale e che sono ancora oggi riscontrabili, in numerosi documenti, e persino in procedimenti penali che sono, o sono stati, al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.
In realtà tutte le imbarcazioni che partono dalle coste turche, egiziane, libiche o tunisine, e che si trovano in acque internazionali, dunque a notevole distanza dalla costa, sono da considerare in situazione di distress (pericolo grave ed attuale) anche se procedono a motore verso le coste italiane. Lo impongono i criteri di valutazione delle situazioni di rischio adottati dalle Convenzioni internazionali del mare, come richiamati nel Manuale IAMSAR, e specificati dal Regolamento UE Frontex n.656 del 2014, e quindi i Piani SAR nazionali del 1996 e del 2020.
Nel caso Rackete la Corte di Cassazione, con la sentenza n.6626 del 2020, pone un limite preciso alle attività di law enforcement (contrasto dell’immigrazione irregolare) che si traducono in divieti di ingresso nelle acque territoriali, e richiama strumenti di diritto internazionale ratificati dall’Italia e pertanto pienamente efficaci nel nostro ordinamento: la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS-Safety of Life at Sea, stipulata a Londra nel 1974 e ratificata dall’Italia con legge n. 313 del 1980); la Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (SAR, stipulata ad Amburgo del 1979 e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989, nonché con il D.P.R. n. 662 del 1994); la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritto del mare (UNCLOS, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994). Si tratta, osserva la Corte, di «disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima». Evidentemente, secondo la Corte di Cassazione, per le operazioni di polizia marittima valgono le stesse regole previste dalle Convenzioni internazionali per le attività di ricerca e salvataggio, tutte le volte che ci sia anche una sola vita umana a rischio.
Non sarò certo il Decreto legge Piantedosi n.1 del 2023 che potrà stravolgere l’applicazione di consolidate Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei. In materia di soccorsi in mare. Da Bruxelles, anche con il recente Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, non è arrivata alcuna copertura per le politiche di gestione delle frontiere marittime praticate dall’Italia. La “Raccomandazione” della Commissione al Consiglio dell’Unione europea, “sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso”, adottata quando era stato presentato, il 23 settembre 2020, il Patto sulla migrazione e l’asilo, è rimasta lettera morta. Su queste materie rimane quindi decisiva la competenza delle autorità politiche e marittime nazionali, tenute a coordinarsi tra loro, come rilevato anche con riferimento alla strage di Steccato di Cutro, dal Mediatore dell’Unione europea.
Tocca adesso – da un lato – ai giudici indagare in piena autonomia sulle stragi e sui casi di mancato avvio delle operazioni di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali; e – dall’altro – all’opinione pubblica (almeno per quella parte che non accetta tesi preconfezionate) svolgere un continuo monitoraggio sugli sviluppi delle indagini e rinnovare per tutte le vittime ormai senza voce la richiesta di verità e giustizia.