Sin dall’antichità i filosofi, fatte alcune eccezioni, hanno ritenuto gli animali non umani oggetti, o comunque qualcosa di nettamente separato da noi animali umani, incapaci di provare emozioni, sentimenti, per non parlare di capacità cognitive, da Aristotele a Cartesio, per citare gli esempi più noti.
Fortunatamente, anche grazie alla ricerca scientifica e al lavoro di etologi e biologi, gradualmente il muro di luoghi comuni, di pregiudizi si è gradualmente, parzialmente sgretolato.
I passi avanti enormi fatti dalle analisi sull’intelligenza animale non umana hanno incrinato vecchie certezze, fornendo un contributo fondamentale. Tra i saggi recenti tradotti in italiano, corre l’obbligo di citare Frans de Wall “Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza animale?” pubblicato nel 2016 da Raffaello Cortina Editore.
La conferma di una crescente attenzione da parte della filosofia rispetto a questa tematica ci viene dalla autorevole e storica rivista “Aut Aut”, fondata nel 1952 da Enzo Paci e attualmente diretta da Pier Aldo Rovatti, che ha dedicato allo specismo e all’antispecismo quasi l’intero numero di febbraio dal significativo titolo “La filosofia davanti al massacro degli animali” che si avvale di numerosi contributi tra i più preparati studiosi della questione e dei temi ad essa collegati.
E nella premessa firmata da Massimo Filippi e Giovanni Leghissa viene proposta immediatamente la dimensione dell’Olocausto: il numero degli animali che “ogni anno attraversa il sistema allevamento/mattatoio è semplicemente esorbitante – escludendo gli animali di piccola taglia, venduti a tonnellaggio, e i pesci, si calcola che vengono macellati circa 120-150 miliardi di animali all’anno per la sola alimentazione umana”. Giustamente a questo dato allucinante sono aggiunte tutte le attività della nostra specie dove lo sfruttamento animale non umano pervade innumerevoli settori: dall’abbigliamento alla ricerca biomedica, dai test per valutare la tossicità di qualsiasi sostanza, alla pubblicità, dalle varie forme dello spettacolo e dell’intrattenimento, fino allo sport.
Filippi e Leghissa sottolineano come rimettere in discussione radicalmente il nostro sguardo nei confronti dell’”Animale”, significa anche e soprattutto “rimettere in questione il modo stesso in cui pensiamo noi stessi”.
Ma approcciare alla tematica con uno sguardo moralista e aggiungo pietistico ci porterebbe fuori strada, o comunque rimuoverebbe un aspetto centrale: lo specismo è una tematica squisitamente politica e di converso l’antispecismo non può prescindere da un punto di vista che veda lo sfruttamento dei non umani conseguenza di un sistema basato sullo sfruttamento in tutte le sue articolazioni e ambiti. Una vicenda che ha al centro una visione totalmente antropocentrica che con la nascita del capitalismo compie un fondamentale salto di qualità.
Dunque la presa di coscienza che si tratta di una questione politica ha permesso di affrancarsi da chi, pur avendo avuto il grande merito di diffondere il pensiero animalista, non è riuscito a liberarsi come accennato da una linea moralista, vedi Peter Singer che nel 1975 pubblicò quello che è considerato il testo considerato il manifesto dell’animalismo, “Liberazione animale”.
E i saggi proposti da Aut Aut, nell’analizzare il pensiero di tutti quei filosofi che si sono confrontati con la tematica in vari modi e con punti di vista diversi tra loro, hanno come prerogativa una concezione squisitamente politica, oltre che ovviamente filosofica, dello specismo e lo sguardo antispecista proposto esalta anche la politicità dei comportamenti animali.
Vedi il saggio di apertura dello stesso Filippi, dove nel chiamare in causa e analizzare il pensiero sulla questione di Adorno, Horkheimer, Derrida, Deleuze e Guattari, evidenzia come il “divenire animale è deanprocentrizzazione assoluta che trascina via ogni residuo di Umanità dell’uomo, deterritorializzazione assoluta dell’uomo in opposizione alle deterritorializzazione relative che l’uomo opera su sé stesso”. E il riferimento al deterritorializzare e ai territori, ci fa venire in mente come di fronte alle barriere che oggi si ergono contro le grandi migrazioni umane, dal mondo animale non umano ci vengono mille esempi di migrazioni che superano ogni confine, metafora di un possibile mondo senza muri dove la libertà di movimento non sia appannaggio principalmente delle merci, ma di ogni specie vivente.
Altro aspetto strettamente politico è la ribellione dei non umani, questione toccata anche in altri testi presenti nella monografia. Come ha attestato Jason Hribal, insieme ad altri autori, vedi il suo“Paura del pianeta animale” sottotitolo “La storia nascosta della resistenza animale”, sono innumerevoli gli episodi di ribellione che si manifestano quotidianamente nel nostro mondo da parte dei non umani, una resistenza “verso la violenza istituzionalizzata e industriale, perpetrata quotidianamente”, sempre Filippi, “nei loro confronti”, aspetto ancora sottovalutato dall’antispecismo.
Non potendo per ragioni di spazio indugiare sui vari testi proposti da Aut Aut, ci preme soffermarci sul contributo, in chiave anche femminista, di Elisa Bosisio “Casalinghe e animalesse: sul lavoro ri/produttivo tra natura e tecnica”, dal cui titolo già si evince come si tratti di un breve saggio incentrato su alcune questioni a nostro avviso cruciali, sempre a proposito di uno sguardo politico su tutta la tematica.
Abbiamo accennato al salto di paradigma compiuto dal capitalismo rispetto allo sfruttamento in ogni sua dimensione e ambito. A questo proposito la Bosisio sottolinea come il lavoro sia “categoria imprescindibile dell’economia politica” e abbia “un genere e funziona come attributo di specie”. Da qui la necessità di “tirare le fila che intrecciamo i corpi, le esperienze e lo sfruttamento di donne e animali non umani dentro una comune genealogia di pensiero che, partendo da una certa riflessione del femminismo degli anni settanta, si impegna ad aggiornare e inspessire l’analisi marxiana per portare all’attenzione il lavoro invisibilizzato…”.
Lo stesso Marx solo nelle “Teorie del plusvalore” ha compreso l’importanza del lavoro considerato improduttivo, poiché, citazione del testo marxista, “ascrivibile alla transitorietà dei servizi e indepositabile nella materialità e oggettività delle merci ha non solo valore d’uso, ma anche un valore di scambio che si corrobora attorno al lavoro della cuoca, del maestro di scuola, del medico, delle prostitute”. Da qui il femminismo degli anni settanta, per la Bosisio, “fornisce un solido ponte teorico-politico con il più recente riconoscimento femminista del lavoro biologico”.
Con queste premesse è possibile allargare l’analisi anche al mondo non umano: “dal progetto “OncoTopo”, ibrido piano creato in laboratorio con un gene tumorale umano che può sviluppare carcinomi mammari e impiegato come modello in studi medici, alle orche utilizzate nell’industria dell’intrattenimento, ai cani impiegati nelle carceri statunitensi per progetti educativi per i detenuti”, fino alla nota e immensa macchina si sfruttamento nell’agrobusiness dalle mucche/balia clonate per ricavarne latte con proteine umane, a tutto il sistema intensivo e parossistico dell’industria alimentare, quali migliori esempi del lavoro degli animali non umani e del loro contributo alla mega macchina della riproduzione che vincola “donne e animali in quella di determinismi e spontaneismi puntellato da patriarcato e specismo”?
Con l’immenso contributo, “estenuante sforzo ri/produttivo” donne e femmine delle specie non umane aprono spazi di pensiero e conflitto per interrompere la sottomissione della riproduzione alle logiche della crescita economica”.
Per un agire politico antispecista, per una filosofia antispecista.