Quella del popolo palestinese ha sempre avuto le caratteristiche delle lotte di liberazione nazionale: un paese che combatte per la propria indipendenza mentre è sotto occupazione straniera. Storicamente, questo genere di lotte può dotarsi di mezzi nonviolenti (lo sciopero, la non-collaborazione, le marce, la disobbedienza civile, il boicottaggio, il sabotaggio) o di mezzi violenti (l’insurrezione popolare, la guerriglia, gli attentati, i rapimenti). Nei movimenti per la liberazione della Palestina non si è fatta eccezione: si sono alternate e sono in parte convissute strategie violente e nonviolente. Non ci è dato sapere quali siano state prevalenti, perché una caratteristica dell’informazione (e spesso anche della storiografia) è quella di dare risalto ai fatti violenti e di non riportare, in genere, quelli di resistenza civile disarmata, in quanto nonviolenti e, perciò stesso, considerati dai media irrilevanti, in un immaginario militaresco di guerra che ritorna ignorantemente nella Storia.
Lo Stato occupante di Israele si è macchiato per generazioni di soprusi e umiliazioni di stampo colonialista, ma è andato addirittura oltre, introducendo leggi discriminatorie che avallano un regime di vero e proprio apartheid razziale: dall’accesso all’acqua, all’agricoltura, alle cure mediche, al libero spostamento, i palestinesi vengono regolarmente discriminati rispetto ai cittadini israeliani. Inoltre possono essere incarcerati per lungo tempo senza processo (detenzioni amministrative), possono essere loro arbitrariamente confiscati i beni, demolite le case, sradicati gli uliveti ed i frutteti. In altre parole hanno sopportato e sopportano una violenza continuativa, sia diretta (uccisioni, arresti, demolizioni, torture), sia strutturale (il regime di apartheid), che culturale (annientamento della memoria storica palestinese, limitazioni all’accesso dei luoghi di culto).
Vorrei in queste righe aprire un varco di riflessione sull’uso della violenza “legale” da parte degli Stati e dell’uso “illegale” della protesta, sia essa nonviolenta che violenta da parte dei popoli o di loro minoranze propositive.
Il popolo ebraico ha anticamente subìto l’enorme violenza della “diaspora”, ovvero deportazione, abbandono della terra in cui viveva, esilio forzato. Molto più vicina nell’arco del tempo è la pianificata deportazione in campi di sterminio degli ebrei nei territori dell’Europa nazista, che prende il nome di “shoah”. Il popolo ebraico ha subìto molta violenza, mentre era un popolo senza un proprio territorio e senza un proprio Stato.
Non appena s’è fatto Stato, su un territorio abitato da altri, si è trasformato d’un tratto da vittima in carnefice, da oppresso in oppressore. Perché essere uno Stato, per giunta riconosciuto e armato, significa poter utilizzare la violenza in modo legale, con la polizia, l’esercito, i servizi segreti, per mantenere l’ordine pubblico nel proprio territorio e, nel caso di Israele, nei territori occupati in Palestina.
La “nakba” (catastrofe) del 1948 ricorda un po’ la diaspora: requisizioni di case, evacuazione forzata di interi villaggi, massacri e deportazione della popolazione. Si narra che per molti anni un vecchio palestinese girasse con ai fianchi migliaia di chiavi: voleva ricordare le serrature di quelle porte di case palestinesi, ormai demolite ed inglobate nel territorio israeliano.
Nel 1987, cinque anni dopo il terribile massacro israeliano nei campi profughi palestinesi in Libano di Sabra e Shatila, i palestinesi hanno lanciato la prima “intifada”, ovvero un’insurrezione popolare senz’altre armi se non le pietre e le fionde. Pur non potendosi considerare una forma di lotta nonviolenta, la “rivolta delle pietre” ha messo in evidenza l’estrema sproporzione del conflitto, ribaltando il mito di Davide e Golia. Venne soffocata nel sangue, così come le rivolte successive. La resistenza dei palestinesi si è manifestata nel silenzio del mondo, attraverso molte forme di disobbedienza civile e di rifiuto davanti all’ingiustizia. Poi, certo, abbiamo sentito le notizie di attentati suicidi a Gerusalemme, o a Tel Aviv, con morti fra i civili israeliani e possiamo esserci fatta un’idea superficiale ed unidirezionale della resistenza palestinese, così come vorrebbe la grande maggioranza della stampa internazionale.
Il massacro perpetrato dai miliziani di Hamas il 7 ottobre 2023, incomprensibilmente non monitorati dalla perfetta intelligence israeliana, ha dato l’opportunità al governo della destra di Netanyahu di distruggere la striscia di Gaza e i suoi abitanti, per togliere ai palestinesi l’unico sbocco al mare (con la presenza, tra l’altro, di importanti giacimenti di gas nei fondali). Ciò anche a rischio di provocare l’allargamento della guerra: il governo israeliano ed il suo apparato militare sembrano non rispondere più neppure ai propri mentori anglofoni.
Gli ebrei erano un popolo senza Stato e sono diventati uno Stato oppressivo e militaresco. Il popolo ebraico è stato esposto al genocidio ed oggi si trova sotto un governo che attua la stessa ricetta per eliminare i palestinesi.
Per passare da vittime a carnefici basta dunque diventare uno Stato?