A Danilo devo troppo della mia formazione sociale e politica per riuscire forse a parlarne con la necessaria obiettività. Ma è stato certamente uno dei personaggi italiani – e non solo – più significativi dell’azione sociale, culturale e pedagogica del secolo scorso per non considerarne con la dovuta serietà le esperienze e le idee. In breve, figlio di un ferroviere di provincia e nato per caso in Istria, attraversò fuggendo i due anni della guerra civile e trovò rifugio nella comunità di don Zeno Saltini, nell’esperienza che possiamo ben dire utopistica di Nomadelfia, da cui si distaccò per vivere a Trappeto e Partinico, nel Golfo di Castellammare, nella provincia e nella città di Palermo, nei luoghi più poveri che avesse conosciuto grazie agli spostamenti di suo padre che a Trappeto era stato capostazione. Fu la morte per fame di un bambino a decidere della sua vocazione, a ispirarne le prime azioni.
E i suoi primi scritti, Fare presto e bene perché si muore, vennero pubblicati – come Non posso tacere di don Zeno, Se questo è un uomo di Primo Levi, Gli intellettuali e la guerra di Spagna di Aldo Garosci e una raccolta di scritti di e su i preti operai – dalla piccola iniziativa editoriale De Silva a Firenze. Vanno ricordate anche le sue poesie raccolte in un’antologia da Valerio Volpini che, se ben ricordo, comprendeva anche componimenti di Pasolini, che Danilo invitò a seguirlo in Sicilia ma che gli scrisse che, se l’avesse fatto, gli avrebbe creato problemi per via della sua omosessualità (lessi questa lettera sincerissima quando Danilo mi chiese di bruciare tutta la sua vecchia corrispondenza, e di quella e di altre avrei forse dovuto impossessarmi…).
Dal mondo cattolico Dolci si staccò ben presto, nella difficile situazione siciliana dove regnava il cardinale Ruffini a Palermo e dove si diceva che il vescovo di Monreale accogliesse mafiosi ricercati dalla polizia. La banda di Salvatore Giuliano era stata sconfitta da poco e ricordo con qualche emozione che uno dei primi compiti che Danilo mi affidò – mi ero diplomato da pochi mesi come maestro elementare – fu di insegnare a leggere e scrivere a degli ex banditi di Giuliano man mano che uscivano dal carcere e di fare il doposcuola (ma tanti a scuola non ci andavano) ai bambini del quartiere miserrimo di Spine Sante a Partinico, dove Dolci aveva potuto affittare a bassissimo costo in un vicolo una casa a due piani, vuota da tempo perché la si diceva abitata dagli spiriti. E peraltro in un pozzo alle nostre spalle, vennero ritrovati, rivelati dalla gran puzza, uno o due cadaveri di vittime di faide mafiose.
Pochissimo tempo dopo il mio arrivò, Dolci organizzò un collettivo sciopero della fame di centinaia di contadini e pastori sulla spiaggia vicina a Trappeto, per preparare lo “sciopero a rovescio” di tanti disoccupati che aggiustasse una vecchia “trazzera”, strada di campagna, alle porte di Partinico. Vi furono decine e decine di arresti, e poco tempo dopo un processo che suscitò molto clamore. Danilo e i disoccupati vi vennero difesi da Calamandrei, Battaglia, Comandini, Sorgi e altri eminenti avvocati di sinistra, alcuni dei quali, palermitani, provenivano dalla storia del separatismo. Tra i testimoni della difesa vi furono, tra gli altri, Carlo Levi, Bobbio, Vittorini. Quest’ultimo, ricordo, sosteneva che i metodi di lotta nonviolenti avrebbero potuto agire efficacemente tra i contadini siciliani, mentre il giovane Sciascia li giudicava fuori tempo e fuori luogo…
Nel frattempo Dolci era entrato in contatto col nonviolento Capitini, che io conobbi per suo tramite. E successivamente organizzò alcuni digiuni di una settimana, suoi e di suoi amici, e lentamente, man mano che il “miracolo economico” avanzava e che tanti contadini si spostavano al Nord (e io li seguii) reagì ai nuovi tempi con progetti meno “religiosi” e più concreti, anche con qualche idealizzazione dei piani di riforma che andò studiando e che man mano, con forte spinta dal basso per esempio dopo il disastroso terremoto del Belice, vennero acquisiti dall’alto. La costruzione della diga di Roccamena, pensava, avrebbe cambiato il volto di molti comuni. Alcuni dei vecchi collaboratori se ne distaccarono, a più riprese, accusandolo di essere un accentratore. Ed egli, senza affatto abbandonare le sue ostinate speranze, si fece piuttosto educatore che agitatore – e dopo le grandi inchieste e la raccolta di “storie di vita”, come egli diceva, che venissero “dal basso” (esemplari quelle di Inchiesta a Palermo, Einaudi 1957, e la bellissima raccolta dei Racconti siciliani, Einaudi 1971), si dedicò a imprese e pensieri di pedagogia sociale, e tornò più assiduamente a scrivere versi. Furono autori di inchieste diverse tra loro nel metodo ma non nello spirito suoi collaboratori come Franco Alasia (Milano Corea, con Danilo Montaldi); Lorenzo Barbera (I ministri dal cielo) e io stesso occupandomi degli immigrati meridionali a Torino.
Il “miracolo economico” aveva trasformato il paese, al Sud con molta lentezza rispetto al Nord e al Centro, e la mia impressione fu che Danilo – come tanti, per esempio Pasolini o Bianciardi… – ne fosse in parte travolto, spingendolo verso riflessioni e pratiche più pedagogiche e morali che di lotta sociale politica. Eppure, fino all’ultimo, egli organizzò discussioni di base che voleva maieutiche all’interno di più situazioni comunitarie (Conversazioni, Einaudi 1962) e “marce della pace” antimilitariste e nonviolente, perfino in Sardegna, e continuò, o riprese, a scrivere poesie (si veda Poesie 1949-1978, Feltrinelli 1969). Personaggio chiave per la storia degli anni Cinquanta, Dolci è stato un ostinato cercatore di strade nuove e rigorosamente “dal basso”, per la politica e per la pedagogia più sociale, in un paese che non sempre ha amato come avrebbe dovuto le novità più profonde e più autenticamente democratiche.