L’occultamento della diffusione del “caporalato etnico” e di quello italiano nell’universo delle economie sommerse saldamente intrecciato con quelle apparentemente legali_
Come negli anni scorsi anche quest’anno si è ripetuta la “scoperta” e l’esaltazione dell’imprenditorialità degli immigrati (vedi rapporto IDOS e articoli che ne riprendono la parte sull’aumento degli imprenditori immigrati[1]). Si tratta di un fatto economico, sociale e culturale (cioè un fatto politico totale[2]) che per una parte può essere considerato positivo. Ma, come vedremo dopo, è assai fuorviante non svelarne le ambiguità, cioè gli aspetti negativi che ci sono sempre stati e che nell’attuale contesto liberista producono conseguenze nefaste per gran parte dei lavoratori coinvolti e per la riproduzione e l’aumento delle “economie sommerse”. Fuorviante perché si occulta la diffusione del “caporalato etnico” e di quello italiano nell’universo delle economie sommerse saldamente intrecciato con quelle apparentemente legali. I beneficiari sono grandi e medie imprese, ossia i dominanti italiani e solo in piccola parte anche stranieri, grazie agli “illegalismi tollerati” garantiti dai governi dell’ex-sinistra e ancora di più delle destre e dalle principali istituzioni, fra le quali le forze di polizia locali e nazionali[3]. Il fenomeno è comune a tutti i paesi di immigrazione in passato e anche oggi.
Una storia che si ripete
Chi conosce un po’ la storia delle migrazioni – e fra altre di quelle degli italiani- sa bene che c’è sempre stata una forte aspirazione del migrante per la sua riuscita economica e sociale (vedi nota 2). Un’aspirazione insita nella stessa emigrazione che è anche volontà di emancipazione. Come dice un vecchio detto siciliano: Cu nesci arrinesci (chi esce – emigra – riesce). Per la maggioranza dei migranti -soprattutto di una volta- la riuscita è consistita nell’approdo a una condizione economica e sociale decente (un salario e un alloggio dignitosi, l’automobile e gli elettrodomestici, non far mancare quantomeno l’indispensabile ai figli). Per una minoranza, invece, c’è stato un tragico fallimento e la vergogna di tornare senza poter mostrare neanche una piccola riuscita. Un’altra minoranza ha però conquistato la grande riuscita, ossia la scalata nell’imprenditorialità nell’industria, nella ristorazione o nel commercio (vedi alcuni casi nei testi citati alla nota 2). E’ l’epopea dei self made men, di quelli che sono diventati ricchi nelle Americhe come in Francia e altrove. Si tratta dei casi che si possono capire come l’esito di una sorta di combinazione riuscita fra “etica del migrante e spirito del capitalismo”. Gli esempi sono tanti e si sono ripetuti in tutte le più diverse migrazioni, delle più disparate origini, nel XIX, XX e ora XXI secolo. La chiave di queste riuscite sta quasi sempre nella capacità di amalgamare al meglio l’accumulazione di “capitale sociale” (cioè quelle del reticolo di immigrati delle stesse origini e le relazioni positive con autoctoni del luogo di immigrazione), di sapere professionale (il mestiere e i suoi “trucchi”) e di cogliere le buone occasioni o possibilità di realizzare obiettivi raggiungibili (“la fortuna arride a chi se lo merita”, cioè a chi sa cercarla, trovarla e sfruttarla). Ovviamente tutto dipende dalla forte volontà di riuscire e quindi la disponibilità e capacità per affrontare sacrifici a volte immani, sforzi fisici e anche umiliazioni a cominciare dal “far buon viso a cattivo gioco” e un po’ di servilismo. Persino il padrone razzista può finire per vantare il suo operaio perché s’è dimostrato un “grande lavoratore”, ubbidiente e “senza pretese”. E se questi sa “inghiottire amaro e stringere i denti” dopo potrà rifarsi mettendosi a conto suo e allora diventerà come quel padrone razzista, a meno che sia animato da un’etica di rispetto per gli altri e in particolare per i lavoratori che assumerà alle sue dipendenze (e questo vale anche per i famigliari).
Il reticolo di parenti e compaesani o connazionali può essere una risorsa preziosa per l’immigrato aspirante imprenditore; è il “capitale sociale” di partenza al cui interno ci sono gerarchie e scambi diseguali: nulla è regalato, si accumulano debiti di riconoscimento sia materiali che morali. Ma la risorsa del reticolo[4] vale a condizione però che si connetta con buone relazioni con autoctoni del luogo di immigrazione che abbiano interesse a favorirne l’imprenditorialità in un patto di scambio che ovviamente soprattutto all’inizio è a favore dell’autoctono.
Nella trafila dell’ascesa imprenditoriale sono sempre indispensabili dei mediatori[5], sia per sbrigarsela con tutte le peripezie burocratiche, sia per l’accesso a luoghi, spazi, mezzi e via via altre conoscenze e nuove relazioni utili. Ogni passaggio implica immancabilmente dei costi materiali, ma talvolta anche morali che l’aspirante imprenditore deve essere pronto a sostenere. Il percorso di questo tipo di ascesa sociale “non si finisce mai di pagare”, richiede una notevole tenacia e, se va bene, forgia una sorta di combattente nella gerarchizzazione economica e sociale che può anche mietere conquiste notevoli.
La crescita continua dell’imprenditorialità degli immigrati in Italia
La crescita dell’imprenditorialità degli immigrati è stata costante già negli anni ’90 e ancora di più dall’inizio del XXI secolo. Da notare che essa coincide con un certo declino di quella degli italiani. Secondo l’IDOS solo dal 2011 al 2022, le imprese gestite da immigrati hanno avuto un aumento del 42,7% arrivando a 647.797 unità alla fine del 2022, ossia il 10,8% del totale nazionale. Secondo la Fondazione Moressa[6], il totale dei 2,4 milioni di lavoratori immigrati (dipendenti e autonomi) producono un contributo all’economia italiana, cioè al PIL, del 9% 154,3 miliardi di PIL. Ma, aggiungiamo, se si considera l’universo del lavoro semi-nero e nero – e non solo nell’agricoltura e nell’edilizia- si può stimare che possa raggiungere il 12 se non il 15%). Va osservato anche che gli italiani di origine straniera sono diventati circa due milioni quindi una parte della quota della produzione di italiani per il PIL si deve a questi. Il più alto numero di immigrati lavora nei servizi (dove peraltro è alto il tasso di lavoro nero), c’è poi la manifattura cioè fabbriche e fabbrichette e dopo le costruzioni e il commercio, infine l’agricoltura.
Il numero di contribuenti immigrati è di circa 4,5 milioni (10,5% del totale); nel 2022 hanno dichiarato redditi per 64 miliardi di euro e versato 9,6 miliardi di Irpef. Ovviamente il reddito pro-capite degli italiani è più alto di quello degli immigrati (circa 8 mila euro annui di differenza).
Il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 29,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 27,4 miliardi), è in attivo di +1,8 miliardi di euro, ma va detto che si fanno gravare sul totale spese per gli immigrati anche quelle per la cosiddetta sicurezza che riguarda i CPR, le espulsioni, le carcerazioni e l’obolo che si dà ai rifugiati (ma non è garantita a loro rispetto alle violenze, il super sfruttamento ecc.). Peraltro, si sa che la grande maggioranza degli immigrati è in età lavorativa, quindi pesa poco sulla sanità e le pensioni. Il 20% degli stranieri vive in casa di proprietà mentre la maggioranza è spesso alla mercé di affitti da aguzzini.
La crescita della piccola imprenditorialità dagli anni ’80 a oggi
Sempre secondo la Fondazione Moressa oltre il 74% degli imprenditori immigrati sono titolari di ditte individuali. Questo dato potrebbe essere considerato una conferma dell’aspirazione all’emancipazione economica degli immigrati di oggi che spesso, se non sempre, hanno sfidato la congiuntura sfavorevole dovuta al proibizionismo delle migrazioni che s’è imposto a cominciare dagli anni ’70 e s’è esasperato sino a diventare guerra alle migrazioni con la conseguenza di decine di migliaia di morti (è una guerra!) nei tentativi di migrare verso paesi più ricchi.
Il contesto che si è forgiato in questi ultimi 40 anni è quello del liberismo cioè dello smantellamento della grande e media industria o della loro parziale continuità attraverso la proliferazione del subappalto in cascata in tutti i settori. Già negli anni ’70 tanti operai specializzati furono incitati a mettersi a proprio conto per lavorare come subappaltanti della grande e media industria (nel tessile, nel calzaturiero e in altre manifatture così come nell’edilizia ecc.).[7] Ci fu anche quindi una sorta di evoluzione del lavoratore a cottimo spinto a diventare artigiano o piccolo imprenditore per scaricare su di lui tutti gli oneri e le responsabilità delle attività richieste. Il subappalto è così diventato gigantesco, basti pensare che nei siti Fincantieri l’80% circa dei lavoratori appartengono a imprese subappaltatrici[8]; nelle grandi opere il subappalto in cascata è tale che gli stessi subappaltatori e ancor più i lavoratori non sanno chi sta a monte della cascata. E il 70% degli incidenti nei cantieri edili è nel subappalto.[9] A questo s’è aggiunta la proliferazione delle false cooperative che in realtà funzionano come imprese subappaltatrici e sovente impiegano lavoratori al semi-nero e persino al nero (notoriamente nei servizi fra i quali le pulizie, e da alcuni anni nella logistica). Come scrive il consigliere di Cassazione Roberto Riverso[10]:
“La frantumazione dello schema tipico del lavoro subordinato ha tolto al lavoro tutto valore, e dignità, al punto da consentire il dilagare di forme di sfruttamento plateale. Ci sono voluti, di recente, alcuni arresti per così dire eccellenti per sentire parlare sui media di “cooperative spurie”, società cooperative che si aprono, si chiudono, si usano per scaricare costi, debiti, forse raggiri e poi si fanno fallire”. In genere, però, nessuna considerazione è stata dedicata in questi servizi giornalistici ai problemi di chi lavora all’interno delle stesse imprese. Eppure esse rappresentano oggi l’ultimo girone infernale della condizione servile in cui viene spesso svolto il lavoro nel nostro Paese”.
Inoltre, l’uberizzazione ha creato la nuova sottocategoria dei dannati delle città costretti a correre per le consegne a domicilio di ogni sorta di merci. Nel commercio e anche in altre attività c’è stato anche un boom dell’“apri e chiudi” (le partite Iva che aprono un’attività e la chiudono prima di essere monitorate dal fisco e di conseguenza di dover pagare le tasse).
È in questo contesto che le imprese individuali di immigrati e anche di italiani o anche con dipendenti hanno dovuto integrarsi spesso costretti ad accettare lavori al ribasso e a farsi carico di impegni produttivi sempre più gravosi e peggio di responsabilità ad alto rischio. Ed è allora che si è configurato una sorta di modello vincente: quello di far ricorso a lavoratori al semi-nero o al nero totale, il boom del caporalato del XXI secolo e delle economie sommerse che come stima Eurispes in Italia superano il 35% del PIL[11] (il che induce a stimare i lavoratori che oscillano fra semi-precariato e nero totale a circa otto milioni). Questo sviluppo è stato sfacciatamente favorito o accompagnato dall’evoluzione di apposite leggi e norme (dai contratti a termine, al lavoro interinale, il job act), dal sabotaggio e quasi smantellamento delle agenzie di prevenzione e controllo (ispettorati del lavoro, ispettorati Inail e Asl, RLS e RLST), dalla distrazione quasi totale delle forze di polizia rispetto alla proliferazione degli illegalismi che in tutte le attività economiche si intrecciano con il rispetto legale apparente della regolamentazione vigente[12]. Anzi, ben oltre questa “distrazione” ci sono anche tanti casi di connivenza, complicità e persino associazione a delinquere fra operatori delle polizie, caporali e imprenditori delle economie sommerse[13]. Le conseguenze di tutto ciò non possono che essere tragiche: morti e aumento degli incidenti sul lavoro (come scrivono gli ispettori del lavoro a proposito del crollo al cantiere Esselunga di Firenze, in questa città è rimasto un solo ispettore tecnico[14]). Si è avuta così la proliferazione del cosiddetto “caporalato etnico” come di quello di italiani.
Il fenomeno è talmente diffuso che nei rari casi di controllo, nonostante i preavvisi e i noti avvertimenti, centinaia sono i casi in cui la guardia di finanza e gli ispettori del lavoro hanno potuto accertare molteplici illeciti (lavoratori al semi-nero o al nero totale, contratti fasulli, assenza di misure di sicurezza ecc.). La diffusione degli illegalismi è stata palesemente alimentata da un’abituale prassi di tolleranza da parte dei governi dell’ex-sinistra e ancora di più di quelli delle destre sino a quello attuale che non manca di sciorinare decreti a favore di tale tolleranza con conseguente aumento dell’evasione fiscale e delle economie sommerse[15].
Conclusioni
Purtroppo, la crescita dell’imprenditorialità degli immigrati è solo parzialmente una buona notizia mentre spesso si tratta dello sfruttamento dell’aspirazione all’emancipazione che fa di questi immigrati dei falsi artigiani e falsi piccoli imprenditori che si prestano a super sfruttare i loro connazionali innanzitutto a beneficio di grandi e medi datori di lavoro e solo un po’ per loro. Ancora una volta quest’aspirazione alla riuscita economica e sociale di alcuni immigrati è usata per farne i servi utili al fine di assoggettare loro connazionali a condizione di neo-schiavitù. Lo stesso vale per artigiani e piccoli imprenditori italiani (si pensi ai bresciani capicantiere a Milano, a quelli della valle della gomma, a Ion Cazacu bruciato vivo dal suo caporale[16], ai polacchi “scomparsi” in Puglia[17] e ancora ad altri casi drammatici[18]). Nell’universo dei tantissimi italiani solidali con gli immigrati, in quello dell’associazionismo pro-immigrati o degli immigrati e nei sindacati, manca la sensibilizzazione critica rispetto alle ambiguità dell’imprenditorialità e in genere rispetto alle conseguenze perverse del liberismo.
NOTE
[1] https://www.dossierimmigrazione.it/wp-content/uploads/2024/03/CS-CNA-IDOS-RII-2023-Linarrestabile-crescita-delle-imprese-immigrate-DEF.pdf; fra gli articoli: https://www.pressenza.com/it/2024/03/imprenditori-immigrati-dieci-anni-di-continua-crescita/ ; https://www.ilsole24ore.com/art/sempre-piu-imprese-immigrate-italia-undici-anni-sono-cresciute-oltre-42percento-AF6bzW0C ; https://www.millionaire.it/limprenditorialita-immigrata-continua-a-crescere-in-italia/; e ancora altri sui diversi quotidiani …
[2] Mi sono occupato anche di ricerche sull’imprenditorialità degli immigrati sin dal 1985 in Francia rispetto agli immigrati italiani e a quelli di altre nazionalità. Vedi L’imprenditorialità italiana nella regione parigina, Parigi, Ciemi, 1992; Le développement des activités indépendantes des immigrés en France et en Europe, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 1992, vol. 8, n°1,83-96, http://www.persee.fr/doc/remi_0765-0752_1992_num_8_1_1596?h=palidda; Mobilità umane, Milano: Cortina, 2008; estratto: https://www.academia.edu/36830631/Estratto_da_Mobilita_umane; Immigrazione e imprenditorialità: il continuo adattamento, “Impresa & Stato”, 2002, 59, 28-30, http://www.mi.camcom.it/upload/file/149/74820/FILENAME/palidda.pdf; e sul fatto politico totale vedi https://edizioni.libreriauniversitaria.it/libro/sociologia-e-antisociologia/. E sull’ambiguita vedi anche Il discorso ambiguo sulle migrazioni (scaricabile gratuitamente).
[3] https://www.meltemieditore.it/catalogo/polizie-sicurezza-e-insicurezze/.
[4] Che è appartenenza a cerchie sociali di parentela e di comuni origini (vedi riferimento a Simmel) in cui l’immigrato imprenditore può diventare anche il boss o il power-broker, reticolo che in certi casi diventa una “gabbia” che rinchiude in un’appartenenza che impedisce l’emancipazione culturale e politica e riproduce la gerarchia di dominati e dominanti (i boss o leader o notabili -è stato così anche in certi reticoli di italiani e oggi in alcuni di asiatici e originari di paesi africani – vedi Mobilità umane, cit., e, in particolare, il caso dei Filippini dell’Iglesia Ni Kristo a Milano (capitolo di Chiara Lainati in Socialità e inserimento degli immigrati a Milano. Franco Angeli, 2000 : https://www.academia.edu/38591072/Socialità_e_inserimento_degli_immigrati_a_Milanoo_1a_parte;
[5] Si tratta talvolta di azzeccagarbugli o power-broker in genere italiani ma ora anche stranieri vedi anche Passeurs, mediatori e intermediari, in Antropologia dei processi migratori, “La Ricerca Folklorica”, a cura di G. Dore, 2001,44, 77-84, e Mobilità umane, cit. Come in passato, sulla pelle degli immigrati cercano di avventarsi tanti sciacalli, alcuni in apparenza con buoni propositi; è il caso di certi agenti di banche, di immobiliaristi, di avvocati, commercialisti e anche ex-operatori delle polizie, sindacalisti ecc.
[6] Rapporto 2023 sull’economia dell’immigrazione: https://www.fondazioneleonemoressa.org/2023/10/19/rapporto-2023-sulleconomia-dellimmigrazione/
[7] Vedi https://edizioni.libreriauniversitaria.it/libro/sociologia-e-antisociologia/ in particolare a propositi dello sviluppo della “terza Italia”, dei distretti e del “made in Italy” vantati come genialità italiana anche dalla maggioranza dei sociologi ignorando che fu il boom delle economie sommerse in chiave liberista (quindi boom del lavoro semi-nero e nero, del nuovo caporalato e dell’evasione fiscale, gli “illegalismi tollerati” da autorità e polizie a danno dei dominati invece repressi quando vi si ribellano (vedi link del libro alla nota 3).
[8] Sul subappalto in ben 10 siti di Fincantieri si veda https://effimera.org/il-furore-di-sfruttare-e-di-accumulare; in tale articolo si descrive anche il caso del sommerso nella logistica e quello emblematico di una ditta in Fincantieri di Monfalcone; il procedimento penale per il caso di Ali Md Suhag e di suo fratello si è per ora chiuso con un patteggiamento e anche con la condanna di un finanziere e di altri complici italiani fra i quali alcuni funzionari Fincantieri: https://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2022/11/09/news/fincantieri_inchiesta_venezia_indagato_ex_finanziere-12228049/.
[9] https://www.lastampa.it/cronaca/2024/02/17/news/infortuni_lavoro_sette_su_dieci_subappalto-14079653/
[10] “Cooperative spurie ed appalti: nell’inferno del lavoro illegale” Riverso: https://www.questionegiustizia.it/articolo/cooperative-spurie-ed-appalti-nell-inferno-del-lavoro-illegale_30-04-2019.php
[11] https://eurispes.eu/mediacontent/aise-it-italian-spread-ricchezza-redditi-dichiarati-e-tenore-di-vita-in-un-nuovo-studio-eurispes/
[12] Vedi riferimenti nella nota 2
[13] Vedi libro citato alla nota 3
[14] https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/24/la-ministra-calderone-snobba-gli-ispettori-del-lavoro-loro-scrivono-lennesima-lettera-ecco-perche-i-controlli-sono-pochi-ci-incontri/7456937/
[15] Vedi: https://pagellapolitica.it/articoli/meloni-esagera-meriti-lotta-evasione La signora Meloni ama ripetere che il 2023 «è stato un anno record nella lotta all’evasione fiscale». Questa affermazione non solo nasconde che buona parte delle risorse recuperate non è frutto delle misure messe in campo dal nuovo governo ma di misure già preesistenti, ma è del tutto falsa visto che l’aumento delle riscossioni è rimasto lungi dagli obiettivi che erano stati fissati (già dal governo Draghi) come condizione per accedere ai finanziamenti PNRR. Nei fatti, la sbandierata meta della “pace fiscale” e del “fisco amico” perseguita sin dai tempi di Berlusconi a colpi di sanatorie e decreti favorevoli ai diversi illegalismi ovviamente non ha per nulla frenato l’evasione fiscale: https://ilmanifesto.it/meloni-e-il-fisco-amico-che-non-ferma-levasione. E la sig.ra Meloni, dopo le sue passate celebri frasi sulle tasse che ha definito “pizzo di stato”, si è spinta anche a dire: “non dirò mai che le tasse siano una cosa bellissima, sono una cosa bellissima le libere donazioni” (https://www.agi.it/politica/news/2024-03-13/meloni-riforma-fiscale-25691347/), prospettando così la “rivoluzionaria” trasformazione delle tasse in donazioni volontarie, ossia il totale trionfo del liberismo e immancabilmente l’annullamento di ogni sorta di welfare. Come scrive Mario Pomini (https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/15/evasione-la-guerra-agli-onesti-e-vinta-il-fisco-amico-di-meloni-e-leo-tende-la-mano-ai-ladroni/7479833/): “I lavoratori dipendenti e i pensionati sono più di 30 milioni. La loro evasione pro capite, per rimanere nel campo dell’Irpef, è di appena 150 euro, totale quasi 4 miliardi. Il popolo delle partite Iva è stimabile in 4 milioni di contribuenti. L’evasione pro-capite è di circa 7.000 euro, totale di 28 miliardi (si sa che fra questi ci sono le false Iva cioè i lavoratori costretti ad avere l’Iva mentre svolgono un lavoro dipendente facendosi però carico di ogni costo dei contributi ecc.). In realtà la “libertà fiscale” promessa dagli attuali governanti è sinora negata a milioni di contribuenti in particolare rispetto al sostituto d’imposta ora concessa ai lavoratori autonomi.
[16] Dario Fo, Un uomo bruciato vivo: https://www.chiarelettere.it/libro/un-uomo-bruciato-vivo-dario-fo-9788861907355.html
[17] Giuliano Foschini, Lorenza Pleuteri, Quei 119 spariti dalla Polonia e adesso scomparsi in Puglia, 13 settembre 2006;
[18] Fra altri articoli e documenti vedi: Adragna, Bagnariol, Monaco, Nencioni, L’Italia del lavoro nero, 2013. Drogarsi per lavorare la neo-schiavitù dei braccianti sikh alle porte di Roma. A. Mangano, Violentate nel silenzio dei campi a Ragusa. Il nuovo orrore delle schiave rumene, 15 settembre 2014. A. Mangano, Schiave romene nei campi in Sicilia, per il gouvernement è un fenomeno ‘non significativo, 10 aprile 2015. D. Perrotta, Vite in cantiere. Migrazione e lavoro dei rumeni in Italia, 2011. A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, 2008. https://manisporche.files.wordpress.com/2006/11/manisporche_dossier_completo.pdf; Marco Omizzolo, Campi di sfruttamento, 20 settembre 2020 (e tanti articoli di questo autore.
pubblicato anche su Effimera.org