L’archiviazione di quasi tutti i procedimenti penali intentati contro le Organizzazioni non governative che operavano soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale (da ultimo nel “caso Iuventa” a Trapani) e recenti pronunce della Corte di Cassazione sulla individuazione del porto di sbarco sicuro dei naufraghi soccorsi in alto mare, che non può trovarsi in Libia, impongono una riflessione sulla valenza attuale delle politiche di abbandono in mare praticate sulla base di accordi con paesi terzi che non rispettano i diritti fondamentali della persona sanciti, oltre che dalla Costituzione italiana, dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.
Malgrado la caduta delle tesi che tendevano ad incriminare il soccorso civile, come vera e propria agevolazione dell’immigrazione “illegale”, rimangono in vigore gli stessi accordi bilaterali che sono serviti a giustificare le politiche di abbandono in mare ed i respingimenti collettivi, che, al di là di quanto dichiarato da alcuni politici, hanno prodotto una crescita esponenziale delle vittime, tra cui migliaia di dispersi di cui non si saprà mai il nome. E rimangono operative le disposizioni e le prassi amministrative che hanno portato nel tempo al rifiuto nella indicazione di un porto sicuro di sbarco, ed a rotte vessatorie imposte alle navi umanitarie dopo le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, che si è voluto limitare anche imponendo il divieto dei cd, “soccorsi multipli”, se non il coordinamento con autorità marittime, come la sedicente Guardia costiera libica, che non garantiscono neppure una parvenza di legalità, per i legami, rinnovati nel tempo, e documentati da rapporti delle Nazioni Unite, con milizie colluse con i trafficanti di esseri umani. Eppure, malgrado sia provata la sorte che attende i naufraghi ripresi dai guardiacoste libici e riportati a terra, e nonostante ne abbia preso atto anche la Corte di Cassazione, proseguono i fermi amministrativi delle navi umanitarie perchè avrebbero “ostacolato” le attività di intercettazione in acque internazionali dei libici.
Da ultimo, le autorità italiane hanno sottoposto all’ennesimo fermo amministrativo per 20 giorni la nave della Ong tedesca Sos Humanity che lunedì 4 marzo era arrivata a Crotone dove aveva potuto sbarcare 77 persone soccorse due giorni prima nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Il comandante della nave aveva denunciato “l’intervento violento e illegale della cosiddetta guardia costiera libica”, aggiungendo che “numerose persone si sono gettate in acqua in preda al panico e la guardia costiera ha sparato un colpo in acqua”. Le autorità italiane contestano alla Humanity 1 di aver operato i soccorsi senza sottoporsi al coordinamento del RCC (centro soccorsi) competente, e dimostrano una totale collusione con la guardia costiera libica, dando per buona la comunicazione proveniente da Tripoli, secondo cui la Humanity 1 avrebbe creato una situazione di pericolo mettendo a rischio l’incolumità dei migranti che si sarebbero gettati in mare per essere soccorsi dai gommoni di servizio della nave umanitaria. Un copione che ormai si ripete da tempo, una ulteriore conferma della complicità delle autorità italiane con le attività di intercettazione in acque internazionali delegate alla sedicente Guardia costiera “libica”.
Se obiettivo del governo italiano, dopo la strage di Cutro del 26 febbraio 2023 era quello di combattere nell’intero “globo terracqueo” le organizzazioni criminali che, in assenza di canali legali di ingresso, lucravano sulla pelle dei migranti, intrappolati nei paesi del nord-africa, che tentavano di raggiungere l’Europa, oggi questo obiettivo appare fallito. Perchè non contano soltanto i numeri rilevati su un arco di tempo corrispondente alla stagione invernale e le partenze comunque continuano, anche con condizioni meteo proibitive.
In Libia gli stessi guardiacoste collusi con i trafficanti sono ancora ai loro posti di comando. e godono di ampie coperture. Di certo, la riduzione degli arrivi dalla Tunisia, prodotto dei consistenti finanziamenti assegnati al presidente Saied dopo il Memorandun UE-Tunisia, corrisponde a respingimenti collettivi illegali di migranti verso il confine libico. Con la conseguenza di uno spostamento delle partenze sulle coste della Tripolitania, con il consueto corollario di naufragi e morte per abbandono in mare e di respingimenti collettivi su delega europea, grazie ai tracciamenti garantiti da Frontex, che hanno rigettato nelle mani dei carcerieri libici e, quindi, dei trafficanti migliaia di persone alle quali si è negato il diritto al soccorso ed allo sbarco in un porto sicuro.
È sempre più evidente lo scopo di dissuadere e di criminalizzare i soccorsi umanitari in acque internazionali, in modo da lasciare spazio libero per gli interventi di sequestro in alto mare, spacciati per soccorsi, operati dalle unità della sedicente Guardia costiera libica, sostenuta dalle autorità italiane con finanziamenti e missioni militari in Libia. Da anni l’OIM ed altre agenzie delle Nazioni Unite segnalano la sparizione forzata ed ogni sorta di abusi ai danni delle persone ricondotte a terra dai guardiacoste libici. Imporre il coordinamento dei libici, che spesso neppure rispondono alle chiamate di soccorso, quando non intervengono armi in pugno, significa condannare a morte persone che potrebbero essere salvate. E tutti i naufraghi hanno diritto allo sbarco in un porto sicuro che non si trovi in Libia.
Per Flavio Di Giacomo dell’OIM, “Tutti i barconi che partono dalla Libia e dalla Tunisia carichi di migranti sono per definizione inadeguati ad affrontare la traversata del Mediterraneo quindi devono essere sempre soccorse, anche quando sembrano non avere problemi”. Il Tribunale di Messina ha documentato già anni fa abusi nel campo di detenzione di Zawia, dopo che i naufraghi intercettati in mare erano stati riconsegnati alle milizie locali colluse con i trafficanti. Una situazione che non sembra diversa oggi, mentre in quella stessa città proseguono gli scontri armati per il controllo delle aree portuali.
Non si possono ritenere conformi alle Convenzioni internazionali disposizioni legislative interne o prassi amministrative, come le istruzioni diramate dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (MRCC), che in acque internazionali, impongano il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, nella zona SAR “libica”, da parte di autorità marittime, come la sedicente Guardia costiera libica, che dal novembre 2017 fino ad oggi, con l’attacco alla nave di SOS Humanity, hanno aperto il fuoco durante diverse operazioni di soccorso svolte da navi delle ONG, causando vittime e minacciando i soccorritori.
Se in Italia i Tribunali amministrativi continueranno a giustificare la prassi dei fermi amministrativi “per mancata collaborazione con le autorità libiche”, sarà tempo di una diffusa attività di denuncia in sede penale e di ricorsi alle Corti internazionali. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (casi C-14/21 e C-15/21), già nel 2022, dopo il parere dell’Avvocato generale, ha individuato limiti ben precisi all’utilizzo dei fermi amministrativi disposti dalle autorità italiane, sulla base di una applicazione distorta della Direttiva 2009/16/CE a carico delle navi delle ONG, impegnate nelle attività di soccorso in mare. Dopo che il governo italiano – con il Decreto legge Piantedosi n.1 del 2 gennaio 2023 – ha introdotto nuove restrizioni alle attività di soccorso umanitario in acque internazionali, ampliando i casi nei quali si può ricorrere ai fermi amministrativi, occorre che si reagisca con la massima energia sul piano della comunicazione pubblica e ad ogni livello della giurisdizione nazionale e internazionale, contro scelte politiche e prassi amministrative che hanno come immediata conseguenza un aumento delle vittime in mare e la deportazione di persone già abusate nei paesi di transito.