I Comuni italiani sono attraversati da una crisi profonda, schiacciati soprattutto dai forti vincoli di risorse indotti dalle politiche di contenimento della spesa degli ultimi anni. La funzione pubblica e sociale dedegli Enti locali è sempre più erosa e i nostri beni e servizi comunali sono da anni terreno di esternalizzazione, di privatizzazione e di speculazione, che interessano ormai ogni ambito dell’azione pubblica locale. Una crisi che ha portato di recente alla fuga dei dipendenti e alla perdita di attrattività (il posto sicuro al Comune non tira più tanto).
A certificare il “cattivo stato di salute” dei nostri Comuni è ora anche un focus dell’ISTAT. Dal 2011 al 2021, si stima una perdita di circa 80mila unità di personale (-20%), accentuata nel Mezzogiorno (-24,3%) rispetto al Centro-nord (-17,8%). Si è passati da una media nazionale di 50 addetti a 42, da 69 addetti ogni 10mila abitanti a 62, dall’89,2% del full-time a poco più dell’83%. La flessione è più lieve fra i dipendenti stabili (-6,1%) rispetto alla componente atipica, sia dei dipendenti a tempo determinato (-20,5%) sia dei non dipendenti (-15,4%). Le restrizioni sul turn-over e sull’accesso alla pensione hanno prodotto un invecchiamento accentuato del personale dei Comuni: nel 2021, solo l’1,9% aveva meno di 30 anni (5,1% nelle altre Istituzioni Pubbliche) e più di un quinto (21,4%; era 7,3% nel 2011) oltre 60 (15,8% nelle altre IP). Peraltro, i bilanci comunali consentono margini di manovra esigui per programmare nuove assunzioni, mentre il personale incide molto sulle spese correnti (22,7%; 3,6% nei rimanenti Enti Locali) e rende rigida la spesa (22,8% del totale; 6,5% nel resto delle IP).
Si tratta di criticità che aumentano nei piccoli Comuni rurali e soprattutto nel Mezzogiorno. In quest’area, nel 2021, solo il 73% degli addetti era infatti a tempo pieno (86,5% nel Nord; 91,2% nel Centro), con un forte invecchiamento (31,1% ultrasessantenni) e bassi livelli di istruzione (il 24% ha titoli inferiori al diploma; 17% in Italia). La formazione in servizio, che dovrebbe accompagnare l’intera vita lavorativa, risulta poi debole proprio nelle piccole realtà meno urbanizzate e nel Mezzogiorno, mentre invece ha una diffusione massima nel Nord Italia (nel 2021 otto Comuni su 10 hanno erogato 1,4 giornate formative per addetto), dove la formazione continua degli adulti ha una tradizione consolidata. Nel Mezzogiorno soltanto il 50% dei Comuni offre ridotte opportunità formative (nel 2021 0,5 giornate per addetto).
Per quanto riguarda il tasso di femminilizzazione degli addetti nei Comuni, l’ISTAT certifica che non è uniforme: esso aumenta al crescere della dimensione demografica e del grado di urbanizzazione. Ma la partecipazione femminile appare molto contenuta soprattutto nel Mezzogiorno, dov’è ancora minoritaria, mentre si approssima ai due terzi circa del totale nel Centro e soprattutto nel Nord Italia (è massima, 63,1%, nel Nord-est). La componente femminile è maggioritaria nel personale dei Comuni, ma la prevalenza è inferiore rispetto al complesso della PA. Nel triennio considerato essa risulta meno sensibile alla contrazione complessiva delle risorse umane (-3,5% contro -13,2%, degli addetti maschi). Su scala territoriale, la componente femminile risulta in aumento in tutte le regioni con un incremento in punti percentuali più alto in Basilicata (3,8), Lazio (3,5) e Sardegna (3,1). La centralità del superamento delle disparità di genere è ribadita anche nel PNRR che la individua come una delle tre priorità trasversali e stabilisce che l’intero Piano dovrà essere valutato in un’ottica di gender mainstreaming
L’Indicatore sintetico di “Funzionalità Organizzativa” dei Comuni (IFO-Comuni), diffuso per la prima volta dall’Istat in questo Focus, fotografa le difficoltà e certifica sia una riduzione dei livelli qualitativi (da un valore medio di 100 del 2011 a 98,7 del 2021) sia, per la fase attuale, i marcati differenziali territoriali (Nord 106; Centro 98,5; Mezzogiorno 72,9). Si evidenzia una bassa propensione all’innovazione organizzativa, in particolare riguardo alla digitalizzazione (77% ha carenza di personale qualificato) e alla limitata diffusione del Bilancio sociale-ambientale (8,2%; 27% nelle altre IP). Nel Mezzogiorno, circa la metà dei Comuni presenta una “bassa funzionalità” organizzativa (49,4%; 18,9% nel Centro; 11,4% nel Nord). Inoltre, nei Comuni con valori elevati di IFO migliora in modo visibile la soddisfazione e la fiducia dei cittadini. Il quadro è molto positivo nel Settentrione, in particolare nelle tre principali regioni del Nord-est (Friuli-Venezia Giulia IFO 103,9, Veneto 102,2, Emilia-Romagna 103,4) e in Valle D’Aosta/Vallée d’Aoste (104,7); è particolarmente critico in Sicilia (83,3), Calabria (83,5) e Campania (91,2). In definitiva, la mappatura dei livelli di funzionalità ha confermato diffuse criticità e ampi margini di miglioramento, soprattutto nelle Amministrazioni comunali del Mezzogiorno.
Oltre alla perdita incessante di personale, i Comuni sono stati anche progressivamente privati di trasferimenti statali, una situazione che li ha portati in tanti casi al fallimento. Già l’Università Ca’ Foscari nel suo Rapporto sui Comuni 2023 (“I comuni dentro la sfida del PNRR”, a cura di Marcello Degni, Ed. Castelvecchi) aveva evidenziato come le procedure di dissesto attivate dal 1989 (anno di istituzione del dissesto finanziario), e dal 2012, (anno di introduzione della procedura di riequilibrio) sono state, al 31 dicembre 2022, 1.243 (732 dissesti e 511 riequilibri), corrispondenti a 931 comuni (moltissime le sovrapposizioni). Un fenomeno che ha una forte connotazione territoriale: il valore medio nazionale è del 12%, ma in tre Regioni del meridione la strutturalità emerge con evidenza, in Calabria il 51% dei Comuni ha attivato una delle due procedure contro lo squilibrio finanziario, in Campania il 36 % e in Sicilia il 35 %. Tra dissesti e riequilibri le procedure di criticità finanziaria attive sono, nel complesso 467.
E Comuni così malmessi, privi di risorse e di personale, si sono trovati a dover reggere il carico amministrativo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, non riuscendovi: sei Comuni su dieci nel Mezzogiorno giudicano complessa la partecipazione ai bandi del PNRR e al Sud la realizzazione di un’infrastruttura sociale richiede nove mesi in più rispetto alla media dei Comuni italiani, anche se in quasi otto casi su dieci i Comuni considerano il PNRR un’occasione decisiva per ridurre i divari territoriali. Sono alcuni dei dati contenuti nello studio “I Comuni alla prova del Pnrr“, realizzato dalla Svimez, che sottolinea “il rischio di non realizzare gli investimenti del piano nei tempi previsti” e la necessità “di “dare continuità alle azioni di rafforzamento e supporto delle amministrazioni comunali”.
Nelle conclusioni l’ISTAT sottolinea che “i rapidissimi cambiamenti in atto esigono un’accelerazione nella costruzione di un modello di PA avanzato, capace di rispondere alla crescente domanda di servizi qualificati. Sarebbe indispensabile ripensare ruoli e profili professionali, sistemi di rafforzamento e valutazione delle competenze in servizio, in un’ottica più orientata alle soft e transversal skill. Anche su questo piano, il Mezzogiorno dovrebbe divenire un laboratorio privilegiato di pratiche virtuose e innovative.”
Qui il focus dell’ISTAT