La più grande delegazione umanitaria che si sia recata al valico di Rafah dal 7 ottobre è giunta al termine lo scorso 6 marzo. 50 persone che rappresentano la società civile e la politica italiana, che hanno deciso di dire con ancora più forza ‘Basta!’ di fronte alla catastrofe umanitaria in corso a Gaza. Ho avuto l’onore di partecipare alla Carovana per Rafah per Vento di Terra, insieme agli operatori e operatrici umanitari di altre ONG della Rete AOI, promotrice dell’iniziativa, ai referenti di Arci e Assopace Palestina, ad accademici ed esperte di diritto internazionale, a 16 parlamentari e a 13 giornalisti e giornaliste.
Foto di AOI
Torno a casa con il cuore ancora più pesante per quanto ho visto e ascoltato in questi giorni, ma anche con la sensazione di aver fatto una cosa importante e necessaria, perché ogni sforzo e ogni pressione perché si giunga al più presto a un cessate il fuoco permanente è più che urgente. Al Cairo, prima della partenza per Al Arish – nel Nord Sinai – e poi da lì per il valico di Rafah, abbiamo ascoltato le voci dei referenti delle agenzie ONU attive nella risposta all’emergenza a Gaza – UNRWA, WHO, OCHA – ma anche della Croce Rossa Egiziana e Palestinese e di diverse organizzazioni palestinesi impegnate nella difesa dei diritti umani. Sono palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, ma anche europei e americani e tutti hanno confermato quello che sapevamo, ma le parole che hanno usato per descriverlo lo hanno reso più grave e evidente.
“Non ci sono più parole per descrivere quello che sta accadendo a Gaza”, ci ha detto Richard Brennon del WHO. “Apocalittico è l’aggettivo che si avvicina di più alla realtà”. Secondo i dati disponibili, anche se il cessate il fuoco fosse raggiunto adesso, il WHO prevede altri 8mila morti per fame, epidemie e ferite non curate nei prossimi 6 mesi, altri 85mila morti se le operazioni militari continueranno. “E’ una guerra contro il sistema sanitario di Gaza”, ci dice Marwan Jilani, vice presidente della Croce Rossa Palestinese, i cui medici e infermieri continuano a lavorare in condizioni impossibili, mentre 15 colleghi sono stati uccisi e 20 ambulanze colpite e distrutte. Tutti e tutte richiamano l’urgenza di operare per il cessate il fuoco duraturo, senza il quale l’aiuto umanitario rimane evidentemente una goccia nel mare, perché nelle attuali condizioni è impossibile raggiungere alcune zone e garantire la sicurezza sia di chi porta gli aiuti, sia di chi li riceve. Basel Sourani, del Palestinian Centre for Human Rights, ci ricorda che l’Italia aderisce alla Convenzione per la Prevenzione del Genocidio e perciò, come tutti gli altri Stati aderenti, ha la responsabilità di supportare l’azione legale avviata dal Sudafrica, di chiedere che i crimini di guerra perpetrati a Gaza sulla popolazione civile vengano perseguiti, di adoperarsi perché le misure cautelari richieste a Israele dalla Corte vengano messe in atto. Gli uomini e le donne palestinesi che abbiamo incontrato ci hanno tutti chiesto di essere la loro voce, perché mai più di oggi la loro è inascoltata.
E’ con questo senso di responsabilità che iniziamo il viaggio verso Al Arish nel primo pomeriggio di lunedì 4 marzo. Al Nord Sinai si accede solo con permessi, che abbiamo ottenuto grazie all’Ambasciata Italiana al Cairo; è un viaggio lungo più di sei ore non tanto per la distanza, poco più di 300 chilometri, ma perché si tratta di un territorio militarizzato e per attraversarlo dobbiamo passare innumerevoli controlli. Arriviamo quando è ormai buio, dopo aver superato file chilometriche di camion carichi di aiuti per Gaza. L’hotel dove alloggiamo è quello che ospita pressoché tutti gli operatori umanitari impegnati nella risposta alla crisi di Gaza che fanno base ad Al Arish, si affaccia sulla spiaggia, da cui si scorgono verso est le luci delle navi militari israeliane disposte in fila davanti alla costa di Gaza. Gaza e la sua popolazione allo stremo sono vicine, ci separano da loro solo 50 km.
Al mattino scopriamo una città silenziosa, semi-vuota, polverosa e decadente; una volta ad Al Arish si veniva al mare, ora i segni degli attentati ad opera dei gruppi jihadisti, degli scontri con l’esercito egiziano e delle demolizioni sono evidenti. Usciti dalla cittadina il paesaggio è desertico, ma quello che colpisce lo sguardo sono ancora una volta le interminabili code di camion carichi di aiuti, fermi sotto il sole. Come ci ha spiegato il giorno prima Mohammed Noseer, della Croce Rossa Egiziana di base ad Al Arish, negli ultimi giorni il numero di camion di aiuti ammessi nella Striscia è precipitato con un’oscillazione che va dai 20 agli 80 al giorno; il picco più alto è stato durante la breve tregua di fine novembre quando ne sono entrati fino a 290 al giorno, numeri comunque bassissimi rispetto ai 500 al giorno del periodo precedente al 7 ottobre. Una volta arrivati davanti al valico di Rafah, i camion li vediamo passare attraverso un grosso cancello, solo qualche decina, e sono diretti verso il valico di Nitzana, sul lato israeliano, a 50 km da dove ci troviamo. È lì che devono essere controllati dalle autorità israeliane passando quattro diverse procedure: osservazione visiva del carico, ispezione con cani da fiuto, scansione di tutto il camion e di ogni singolo pallet. Basta un solo oggetto perché un intero camion venga respinto e più tardi vedremo con i nostri occhi quali sono gli oggetti non ammessi.
Foto di Serena Baldini
Durante il tempo che passiamo davanti al valico non entra ed esce nessuno, è surreale essere a 1-2 chilometri da Gaza e non scorgerla, nascosta dai muri e dagli edifici del valico. Mentre ci sistemiamo con i cartelli e intoniamo un coro “Ceasefire Now” per la stampa che partecipa alla delegazione e per quella che troviamo sul posto ad attenderci, la voce a tratti si rompe in gola, scendono delle lacrime, le vedo anche negli occhi di tanti compagni e compagne di viaggio che come me là dentro hanno colleghi e colleghe, le vedo soprattutto negli occhi di Yousef, palestinese di Gaza, operatore di una delle ONG presenti, che ora vive in Italia e che dall’altra parte del muro ha la sua famiglia.
Foto di AOI
Ci rimettiamo in viaggio verso Al Arish per visitare l’immenso deposito dove vengono raccolti i carichi respinti dalle autorità israeliane, gestito dalla Croce Rossa Egiziana. Prima facciamo tappa in un immenso parcheggio polveroso, dove migliaia di camion stazionano sotto il sole, gli autisti accampati come possono aspettano da settimane, alcuni da mesi, c’è chi è lì da gennaio, sotto il sole e la pioggia, con i carichi di cibo che si deteriorano. Al deposito vediamo con i nostri occhi le ambulanze donate e respinte, perché ne possono entrare solo 20 a settimana nonostante il sistema sanitario di Gaza sia al collasso e i mezzi di emergenza ampiamente distrutti. Troviamo incubatrici, bombole per l’ossigeno, frigoriferi e pannelli solari per gli ospedali, persino giochi per i bambini perché sono dentro scatole di legno, materiale ritenuto “dual use”, ovvero potenzialmente utilizzabile per scopi militari e per questo respinto. Il referente UNRWA che ci accompagna ci dice che sono stati respinti persino dei dolci al cioccolato, perché ritenuti non essenziali, mentre a Gaza si muore letteralmente di fame.
Tutto questo è semplicemente disumano e deve essere fermato. Non c’è più tempo. E’ per questo che siamo arrivati fino a Rafah, ognuno con il suo carico di fatica e insieme la convinzione che fosse giusto e importante esserci. La Striscia di Gaza è distrutta e allo stremo, siamo davvero oltre la Catastrofe, oltre ogni violazione del Diritto Umanitario Internazionale. Era necessario arrivare fino a Rafah per denunciarlo con maggiore forza, per dimostrare la nostra vicinanza ai colleghi e colleghe di Gaza, per fare pressione sul governo italiano perché si adoperi concretamente per il cessate fuoco immediato e per assicurare l’accesso sicuro agli aiuti, perché non si renda complice del genocidio in corso, adoperandosi perché le misure cautelari richieste a Israele dalla Corte Internazionale di Giustizia vengano messe in atto.
So che le lacrime che abbiamo versato in questi giorni in Egitto sono quelle di tanti e tante che con il cuore erano con noi, che ci hanno scritto bellissimi messaggi di vicinanza e di incoraggiamento. E la consapevolezza di essere tanti e tante nutre la speranza che ora al ritorno la strada da fare sarà ancora molta, ma che avremo tanti compagni di strada.
A cura di Serena Baldini, Vento di Terra ONG