Secondo il rapporto Food Security Phase Classification (IPC), 11 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza sono a rischio carestia, di cui 1 milione è allo stremo, e la situazione potrebbe degenerare ulteriormente entro questo luglio, contando che l’88% dei cittadini di Gaza si trova già esposto a gravi condizioni di insicurezza igienico-alimentare e di malnutrizione: la popolazione sta consumando cibo per animali!
Il World Food Programme (WFP) stima che per far fronte a questa emergenza crescente servono almeno 300 convogli al giorno carichi di cibo, medicine, beni di prima necessità diretti a Gaza, quando la media giornaliera dei convogli umanitari fino a poco fa si aggirava intorno a 157. Eppure, come afferma Carl Saku, Direttore Operativo del WFP, i carichi di aiuti umanitari non mancano, il problema è il complicato sistema dei controlli imposto dallo Stato di Israele, di cui è complice anche l’Egitto.
Il porto più vicino a Gaza è quello di Port Sa’id situato in Egitto, non distante dall’aeroporto di El Arish che rappresenta un punto importante, dove convergono tutti i carichi di aiuti umanitari via terra destinati a dirigersi verso quello che dovrebbe essere il confine egiziano con la striscia di Gaza, Rafah, coprendo una distanza di 50 km. Tuttavia, i carichi prima di raggiungere il confine, vengono ispezionati alle due frontiere israeliane, a Kerem Shalom o a Nitzana, che corrisponde a un altro giro di cinquanta chilometri circa.
Dopo il controllo i convogli con gli aiuti umanitari vengono ammessi ai due varchi, quello di Rafah e di Kerem Shalom, la cui capacità è di ben 500 mezzi al giorno, ma con una media di attesa di ben 2-3 ore per lo scarico degli aiuti umanitari, l’ispezione (avviene solo dalle 07.00 fino 16.30) e l’accettazione sul territorio. In seguito, le merci vengono immagazzinate in un deposito e poi caricate su altri camion che si avviano verso uno dei due checkpoint, gestiti ovviamente da Israele. Uno disposto è a Al Rashid (lungo il mare) e l’altro nell’entroterra a Salah Al Deen, ma non finisce qui. Le autorità israeliane ispezionano ancora un volta il contenuto di questi camion e decidono di rigettare anche interi carichi, solo perché viene trovato un oggetto non conforme alla lista degli oggetti ammessi sul territorio palestinese.
Si possono forse proibire oggetti come filtri per l’acqua, anestetici, bende, compresse per la purificazione dell’acqua, kit per le donne in gravidanza ecc., e recentemente perfino le forbici? Ebbene sì, la disumanità non ha limiti. La motivazione? Non ci sono sempre delle risposte, ma si può supporre che siano considerati quasi alla stregua di armi a “doppio uso”, inseriti in una lista che, tra l’altro, non viene nemmeno aggiornata dalle autorità israeliane.
Oggi al Nord di Gaza i convogli umanitari non arrivano più e la popolazione palestinese è ancora una volta vittima di una sadica tortura perpetrata dallo Stato di Israele. Infatti, dal 21 marzo le autorità israeliane continuano a rifiutare l’invio urgente di convogli umanitari a nord di Gaza. L’UNRWA ha inoltrato altre richieste di permesso alle autorità israeliane, ma sono state tutte rigettate senza motivo. Una quarta richiesta è stata inoltrata il 24 marzo, ma è stata di nuovo rifiutata.
A questa notizia si aggiunge la conferma del 24 marzo dal capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite, Philippe Lazzarini, secondo cui le autorità israeliane avrebbero comunicato all’UN di non accettare più alcun convoglio umanitario inviato dal UNRWA al Nord di Gaza.
Come se non bastasse, arriva anche la recente dichiarazione di Netanyahu che non fa che acuire questo inferno senza fine e, mentre l’UE si appresta comodamente a parlarne nei suoi soliti banchetti, il Primo Ministro israeliano ha già lanciato l’attacco su Rafah.
Rafah non è solo geograficamente l’ultima frontiera più vicina e accessibile, ma è l’unico confine attraverso il quale arriva la maggioranza di quei pochi aiuti umanitari ammessi dalle autorità criminali israeliane, l’unica via di fuga che rimane per la popolazione palestinese per scongiurare un vero e proprio olocausto nel senso originario della parola greca.
Di fronte all’isolamento del popolo palestinese, il cui destino assomiglia sempre più a quello dell’Armenia, un altro popolo che si è visto decurtare più di metà territorio, costretto ad emigrare e che è stato vittima di un altro grande genocidio, non si dice fino a che punto anche l’Europa stessa sia direttamente coinvolta in questo massacro e sia pronta a trarne i propri vantaggi, economicamente parlando.