«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» – così dichiarò nel 2015 Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”.
É giusto giustificare la pubblicazione e la vendita del libro di Vannacci solo perché si vendono anche libri di “autori di sinistra”?

Con il caso Vannacci siamo arrivati all’apice di quello che Eco intendeva. Al posto dello sviluppo del senso critico e della “libertà di pensiero”, si sta sempre di più affermando un fenomeno di impoverimento culturale che conduce ad un “servilismo ideologico”, ad un pensiero negletto, banale, asservito, relativizzato, artificiale ed eterodiretto fuori da ogni logica volto a generare “guerre culturali” per dissacrare e polarizzare l’opinione pubblica, svalorizzando i discorsi politici e filosofici che hanno contribuito all’incremento del livello culturale del nostro Paese.

Di questo parliamo con Olivier Turquet, attivista per i diritti umani, ecopacifista, cooperante umanitario e giornalista. È stato fondatore di Multimage – casa editrice dei diritti umani, da sempre attivo nell’ambito della controinformazione alternativa nonviolenta.
Attualmente è coordinatore della redazione italiana di Pressenza.

Caso editoriale e mediatico “Vannacci”. Quale libertà di espressione ?

La libertà di espressione va garantita a tutti.
Poi ci sono le leggi, più o meno giuste, che regolano quello che si può dire o no.
Per esempio in Italia c’è una legge sul Partito Fascista che è di fatto disattesa, mentre c’è una legge sulla diffamazione che è usata dai politici per silenziare i giornalisti scomodi.
Poi non sarebbe male ripristinare il buon senso e il senso della misura: di Vannacci si è parlato troppo, certe idee meritano il vuoto.

‘Libri per Tutti’ è il motto di alcune librerie e case editrici – neanche troppo commerciali -che hanno deciso di vendere il libro del generale Vannaci, in nome della “democrazia editoriale” in quanto il compito dei librai è di vendere libri e non idee, separando il ruolo degli editori da quello dei critici letterari. Essendo direttore di una casa editrice indipendente, come vedi questa presa di posizione?

Nel caso del libro di Vannacci, come di tutti i libri “print on demand” la dichiarazione e la polemica è inutile. I libri Amazon, come quello di Vannacci, non hanno altra distribuzione che Amazon stessa. Se una libreria li vende lo fa perdendoci soldi perché Amazon non fa sconti alle librerie e se li ha fatti in questo caso è un’eccezione dovuta allo scandalo mediatico. Per cui tutta la faccenda è solo una bolla di sapone.

Può il discorso economico prendere piede più dell’interesse di fare cultura ? Chi è che guadagna dal libro di Vannacci ?

Sono quasi 30 anni che come Multimage denunciamo la divaricazione tra il profitto e la cultura. Peraltro nel passato ci sono stati interessanti tentativi di coniugare le due cose, come la fantastica operazione di sdoganamento della letteratura latinoamericana che fece Feltrinelli, vendendo centinaia di migliaia di copie di Cent’anni di Solitudine, o tutta l’opera di Rodari o di Calvino, per citare grandi autori con impegno politico.

Ma il tema di fondo è la direzione mentale: Giangiacomo Feltrinelli aveva chiaro che l’obiettivo era ampliare gli orizzonti e mentre pubblicava Marquez tirava poche copie di Capitini o dei suoi amici marxisti-leninisti.
Peraltro finché c’era lui la casa editrice era in attivo e faceva cultura. Nel nostro piccolo a Multimage cerchiamo di fare lo stesso.

Il caso Vannacci ha riaperto il dibattito contemporaneo su come con il processo di
democraticizzazione abbiamo inevitabilmente appiattito e anche banalizzato il dibattito.
Può essere detto tutto e il contrario di tutto, un pensiero con valori umanistici messo sullo stesso piano di un pensiero repressivo ed oscurantista. C’è qualcosa che non va nella libertà di
espressione nelle nostre democrazie liberali?

Non è un problema di democrazie liberali; è anche questo un problema di direzione mentale.
Il ‘68 aveva inventato il delizioso cartello “E’ vietato vietare”. Qualcuno ha preso sul serio una provocazione dadaista e paradossale, non è possibile vietare il divieto.

La cultura di sinistra vuol vietare ciò che non gli piace mentre quella di destra lo vieta e basta: c’è una sostanziale differenza ?

Negli anni ‘70 un piccolo movimento un po’ underground aveva messo in discussione questo
paradigma del divieto da un punto di vista libertario.

In un contesto diverso gli umanisti, con Silo, avevano espresso un principio: “Se danneggi gli altri resti incatenato. Ma se non danneggi nessuno puoi fare quel che vuoi con libertà”. Nel suo libro Vannacci parla addirittura di frenologia, cioè lo studio dei comportamenti sociali in base ai tratti somatici (quello che veniva definito razzismo scientifico) e per questo è stato denunciato giustamente per diffusione dell’odio razziale. Davvero si vuol fare passare il messaggio che il razzismo è un’opinione come le altre ?
Nel mondo virtuale, dove domina l’algoritmo, è diventato normale racimolare slancio e consenso dal mondo dei social senza che qualcuno si scandalizzi più di tanto.

Sarebbe interessante capire chi si è scandalizzato all’idea che un generale dell’esercito entrasse nel
dibattito politico, si esprimesse in termini da golpista fascista e prendesse le vesti di un intellettuale qualsiasi. Io vengo dall’internet libertario, anzi, vengo da Fidonet che era una rete autocostruita, basata sull’interesse reciproco e il volontariato. Ho visto arrivare in questo mondo i “commercials” e ora è evidente che domina il profitto.

Ma stiamo vedendo crescere e prendere spazio altre forme solidali di condivisione di contenuti, ambiti di scambio, dove discutere senta polarizzazioni e senza degradare l’altro. Io mi dedico a quegli spazi e gli altri, tradizionali e inquinati, li sto sempre più abbandonando.

Nota
La definizione di “libroide” venne data da Gianarturo Ferrari, editore e scrittore italiano, intendendo quegli oggetti che sono fatti nella stessa forma e nello stesso materiale dei libri, ma non lo sono effettivamente nella sostanza.