Una mostra inusuale e toccante sulla violenza di genere
Si entra, da un viale alberato che fiancheggia il Teatro Massimo a Palermo, in un palazzo ottocentesco che ospita, tra l’androne e il primo piano, il circolo ARCI EPYC (European Palermo Youth Center). Qui circa seimila fra ragazze e ragazzi svolgono molteplici attività: c’è una sala studio dotata di computer, si tengono corsi di yoga e di ginnastica, stages e incontri di consulenza sociale, si ospitano mostre e installazioni come quella che si inaugura stasera, venerdì primo marzo.
È l’installazione artistica “Com’eri vestita?” realizzata nel 2018 dal centro antiviolenza di Milano Cerchi d’Acqua, che sta attraversando tutta l’Italia, grazie anche al sostegno di Di.Re.-Donne in Rete contro la violenza. É sbarcata in Sicilia per volontà de Le Onde. Pure Le Onde sono un centro antiviolenza, primo nell’isola e terzo a livello nazionale, ma sono anche molto altro: gestiscono due case-rifugio, organizzano iniziative di ricerca e di formazione e sviluppano progetti in rete.
In questo momento ce ne sono due in fase di svolgimento: il Progetto Vita, per l’accoglienza di donne con deprivazione sensoriale, e il Progetto Lilli, che gestisce situazioni di emergenza e intende creare un luogo in cui le donne trovino opportunità economiche, di orientamento, di lavoro, ma anche di autodifesa. Quest’ultimo insieme con le giovani universitarie di Jesic (Junior Enterprise Sicilia).
La mostra è al primo piano. È una collezione di abiti che colpisce al cuore: “i vestiti esposti” si legge nella brochure “rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza subita” e sono “accompagnati da brevi suggestioni”, frasi pronunciate davvero da donne e fanciulle stuprate.
Accanto a una felpa e a un paio di jeans si legge: “Mia mamma un giorno mi disse: Vestiti più da signorina! E io le risposi: No… mi piacciono i vestiti larghi”. Nessuna immagine renderebbe meglio l’assoluta estraneità dell’abbigliamento all’evento subito e l’assoluta assenza di ogni tentativo di provocazione. Gli abiti sono tutti banali, quotidiani, e invece “la domanda ‘Com’eri vestita?’ sottende una sfumatura accusatoria”.
Nella celebre poesia di Mary Simmerling, affissa all’ingresso, è detto tra l’altro: “Se solo fosse così semplice/ se solo potessimo/porre fine agli stupri/semplicemente cambiando vestiti”.
Ma poi tante e diverse e angoscianti sono le singole storie. Accanto a un abito nero lungo, troviamo questo racconto. “Non mi ero vestita neanche tanto elegante. Non avevo voglia di accompagnare al concerto quell’uomo tanto importante per la nostra azienda di famiglia… La reazione dei miei genitori fu terribile. Mio padre mi chiese quale fosse il problema: in fondo ero una donna divorziata, non avevo niente da perdere… E mia madre mi disse: Cosa ti costava accontentare l’amico di papà?”
Strazia pensare i genitori complici, che, per primi, considerano la propria figlia una poco di buono perché divorziata, e dunque plausibile merce di scambio.
E ancora: “Un costume da bagno. Una giornata d’estate e la voglia di fare quello che più mi piaceva: nuotare nel mare… Per tanti anni a seguire l’ho solo odiato.” Ecco, la violazione non è solo del tuo corpo, ma anche della tua identità, dei tuoi desideri, è la distruzione di un progetto di vita che forse non riuscirai a trasformare o ricostruire.
Un’altra donna confessa: “Ora, qualunque abito indossi, mi sento sempre nuda”, esposta, vulnerabile e forse pure sporca, indecente, fragile e colpevole a un tempo.
Gli abiti sono appesi a grucce lungo le pareti della vasta sala. Solo in fondo c’è un lungo filo per stendere la biancheria e lì, tenuti da pinze per il bucato, ci sono tanti piccoli vestitini: uno slip da bagno minuscolo rosa con i volants, un grembiulino di scuola, un vestitino elegante di pizzo blu, un pigiama coi pupazzi e dei peluche su una sedia colorata. Questo davvero è il percorso più insostenibile. C’è lo zio persecutore che si finge fidato; c’è la bimba che si rifugia in camera sua sperando di essere al sicuro; c’è la mamma che raccomanda alla figliolina, in procinto dell’udienza: “Metti il vestito del matrimonio della zia, così il giudice capisce che sei una brava bambina”. Come se una piccina di pochi anni potesse essere capace di sedurre!
Mi hanno colpita queste figure di madri, le quali, invece di sostenere le figlie, prima e dopo la violenza, mostrano di non capirle, di volerle diverse da ciò che sono, più femminili o, al contrario, meno libere, più sottomesse comunque. L’offuscamento della relazione madre-figlia, o peggio la frattura, costituisce un dolore nel dolore.
Ma lo scopo della installazione non è quello di gettarci nello sconforto. È innanzi tutto quello di decostruire gli stereotipi che la mentalità patriarcale ha imbastito attorno alle donne sole e libere, a partire dall’insinuazione, espressa o sottintesa, circa un presunto atteggiamento seduttivo o sfidante. E inoltre è quello di ribadire l’autorevolezza femminile: “È difficile raccontare la violenza, ma quando una donna prende la parola, lo fa per tutte”.
(La mostra è visitabile fino al 10 marzo a Palermo presso EPYC, via Pignatelli Aragona 42)