Premetto che questo pezzo è scritto abbastanza a caldo, e chi scrive è stato tra i protagonisti dell’azione, le emozioni sono ancora in circolo: tenetene conto.
Raccontiamo per bene cosa è avvenuto domenica mattina a Milano.
Una dozzina di attiviste e attivisti si danno appuntamento alle 10.45 in piazza Duomo. L’idea è quella di entrare in Duomo alle 11, seguire la messa fino alla fine e al termine, quando viene detto “Andiamo in pace” (a proposito, una bella espressione…) ci avviciniamo verso l’altare e dispieghiamo le nostre lettere. Dovevano dire “CESSATE IL FUOCO”, ma, date un paio di defezioni, si passa all’opzione B: “CESSI IL FUOCO”. Decidiamo insieme, appena stendiamo le lettere, di chiedere pubblicamente a chi celebra la messa di poter dire qualche parola. Se poi ci permetteranno di parlare al microfono non ci sarà bisogno di sgolarsi. Se invece ci diranno di no, dovranno dirlo mentre registriamo questa presa di posizione. Silvia, con la sua voce meravigliosa, canterà. Resteremo lì due minuti fino alla fine del canto e ci ritireremo in buon ordine.
Nella concitazione del momento viene dispiegata una G al posto della C. Una di noi è addetta al video. Entriamo e ci sediamo composti, ascoltando la messa fino alla fine. Certo, la sensazione è che tra il latino, che viene spesso usato durante la celebrazione, l’omelia che viene letta con ben poco trasporto e alcune frasi che sembrano più richiamare papa Ratzinger che non papa Francesco, abbiamo la sensazione che gli spazi saranno pochi, comunque si vedrà.
Confesso che durante la funzione pesco tra i miei forti ricordi di infanzia e cerco di pregare affinché tutto vada bene. Noto che in occasione della comunione viene tolta la corda, spessa e rossa, che separa la zona dell’altare da quella dei fedeli, come a segnare un confine invalicabile. Ne sono contento, in questo modo avremo un po’ più di spazio e potremo salire sui primi gradini: non certo fino all’altare, che rispettiamo di sicuro. Ma appena finita la comunione tutto il clero torna su e lo stesso omino vestito di nero che aveva tolto il cordone, lo rimette. “Andiamo in pace”… la messa finisce. A quel punto, con grande compostezza camminiamo verso l’altare.
Faccio notare che la messa si svolge nella parte centrale della chiesa, ma lungo il fianco ha sempre continuato il viavai di turisti paganti, e vabbè…
Mentre ci avviciniamo noto che tutto il gruppo di preti che era all’altare, insieme ai vari chierichetti fanno una doppia fila, scendono e vanno verso la sacrestia. Capisco immediatamente che se non c’è nessuno di loro, a chi possiamo chiedere di parlare? Così accelero il passo, sgancio la corda rossa e letteralmente inseguo il codazzo: l’ultimo è il sacerdote più anziano, comunque quello che ha celebrato la messa. Gli prendo la mano, a voce bassa gli chiedo di fermarsi un attimo, di restare, di tornare indietro di qualche passo, abbiamo bisogno di lui. Spiego che abbiamo una scritta che dice CESSI IL FUOCO. Lui mi dice di no. Solo no.
Un uomo più giovane lo tira dall’altra mano, la scena sarebbe forse comica se non fosse invece drammatica. Lascio la sua mano, lui scivola via col gruppo e in un attimo scompaiono. Nel frattempo il gruppo è arrivato e sta iniziando ad aprire le lettere, ma a quel punto “la gabbia è aperta”: arrivano le guardie, una, due, tre, alla fine saranno più di 10 intorno a noi. La scritta fatica ad uscire. Diciamo loro che chiediamo solo due minuti per esporre la scritta, una frase che sostiene anche papa Francesco. Metà di loro sono attaccati alla radiolina.
E’ a quel punto che parte da un fianco una delle guardie, con un atteggiamento veramente rabbioso: corre letteralmente e comincia a strappare le lettere una a una, ne prende diverse, è una furia, Susanna, una di noi, cade a terra. Susanna è una mia vecchia amica, sui 60 anni come me, un uccellino. In diversi diciamo: “Non abbiamo fatto nulla, perchè questa violenza? Sono le parole del papa, stiamo solo due minuti…”. Cerchiamo di riprendenderci le lettere, ma uno di loro le passa ad un altro, sembra di giocare a palla coi bimbi, non sanno che io coi bimbi ci gioco da 50 anni, non ho mai smesso.
Passano il fagotto, come un pallone da rugby, al più grosso del gruppo, un energumeno, peserà 120 chili. A quel punto però in tre lo prendiamo e tiriamo (noi in tre avremo 200 anni, lui – enorme – non molla). Con una mano come una morsa stringe le nostre lettere, con l’altra è attaccato alla sua radiolina. Tutti gli altri a guardare. Dico forte che se molla le lettere noi ce ne andiamo, è lui che sta facendo durare più del previsto il nostro intervento. Lui dice “Se mi fate male…” Io sorrido, noi fare male a lui? E’ Susanna che gli grida: “Voi avete fatto cadere me!”. Alla fine molla.
A quel punto Silvia inizia a cantare.
Aveva nel cassetto due canzoni, “We shall overcome” ma anche una in latino, “Dona nobis pacem” di Mozart: se la situazione fosse stata tesa, avrebbe cantato quella, e così fa. E’ perfetta. Tutti e tutte ascoltano in silenzio. Finito il canto, ci ritiriamo in buon ordine. Certo ci fumano le orecchie per come siamo stati trattati, neanche tanto da questi dobermann del Duomo, ma dai sacerdoti che, andando via, se ne sono lavati le mani.
Mentre Silvia cantava è comparso vicino a lei un prete, piccolo e incolore (nel vero senso della parola, tutto nero, nulla di rosso…), mandato probabilmente lì a fingere di rappresentare il clero, eclissatosi poc’anzi. Usciamo.
Abbiamo notato che molte delle persone che erano presenti alla messa (circa 400 persone), almeno un centinaio, si sono fermate, più di uno ha fatto riprese, pochi hanno “preso posizione”, ma si è sentito bene uno che gridava: “Cosa fanno? Non hanno fatto nulla di male!”.
Non avremmo voluto che andasse così.