Molte volte cerchiamo nello stare insieme la forza e la speranza di un mondo migliore, e soprattutto la fiducia che nel piccolo, nel nostro piccolo, si rappresenti una goccia che può unirsi a formare un mare. E alcune volte questa esigenza di condivisione diventa una necessità, un’urgenza tanto più forte quanto più terribile è quello che accade intorno a noi.
Con questa confusa sensazione di speranza e disperazione ci siamo ritrovati in piazza il 7 marzo, a Vibo Valentia, a manifestare per la Palestina, per un “cessate il fuoco”; o, per meglio dire, per un “cessate l’orrore”, della fame, della sete, delle malattie, dell’occupazione violenta e brutale, del genocidio compiuto con una disumanità che raramente è stata messa così, tutta insieme, sotto i nostri occhi.
La manifestazione è stata promossa congiuntamente da ANPI, Arci, Fiom Cgil, Giovani Comunisti, Rifondazione Comunista, Associazione Città Attiva e Associazione Vibo Resistenti; particolarmente significativa la partecipazione della comunità musulmana del territorio, che ha arricchito la manifestazione delle sue parole e delle sue musiche. Il corteo ha attraversato il breve tratto del corso principale, fermandosi dinanzi alla Prefettura; in apertura, la scritta “Stop genocidio”, portata in tredici singoli cartelli da altrettanti partecipanti vestiti di nero, a simboleggiare il nostro lutto; un lutto che va in primo luogo alle vittime, ma che si estende allo stesso concetto di Stato democratico, perché solo la prostituzione della parola può definire tale un Paese che attua indisturbato, non da oggi, crimini contro l’umanità e, oggi, crimini di guerra.
Questo lo spirito che ha animato gli slogan: “Non nel nostro nome”, “Palestina libera”, “Siamo tutti Palestinesi”; a conclusione è stato letto un documento a sostegno del popolo palestinese e di solidarietà per gli studenti di Pisa, manganellati in piazza nel corso di un’analoga manifestazione. Un connubio che mostra, come ha evidenziato anche il documento, il progressivo deterioramento dei principi di diritto sia all’interno del nostro ordinamento che nella comunità internazionale, ove non si è voluto ricorrere agli strumenti esistenti e predisposti proprio per reprimere le condotte inumane e illegittime a cui assistiamo impotenti.
Ci si è lasciati con la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta e della necessità di continuare a difendere diritti che non possiamo mai dare per scontati, ma anche con l’amarezza di non poter fare null’altro, qui ed ora, per alleviare il dolore dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in Palestina.