Dopo avere pubblicato il primo contributo sulla nonviolenza, nato da una discussione che mi ha visto coinvolto con altri militanti del movimento, il dibattito non si è chiuso e altri temi sono stati posti all’attenzione. Ne sono venuti per me altri spunti di riflessione che costituiscono l’articolo che segue, in continuazione e completamento di quanto precedentemente scritto
Due sono le tematiche fonte di nuove discussioni. La prima è nata dal fatto che alcuni di noi hanno definito non condivisibile un testo dove si usavano espressioni militariste, e dunque considerate violente per definizione, del tipo “corteo combattivo”, “battaglia di civiltà”, “sabotare la guerra” ecc. La seconda obiezione, riferita a quanto sta avvenendo a Gaza in Palestina da parte dell’esercito israeliano, riguardava la necessità di non usare espressioni di odio anche contro chi si macchia di fatti inaccettabili, limitandosi a criticarne le azioni. In sostanza non dire “Israele criminale, terrorista e genocida” ma dire no alle “pratiche di pulizia etnica e genocidio”.
Partiamo da questa seconda obiezione. Capisco che di primo acchito, e detta in questi termini, la questione può apparire frutto di esagerate preoccupazioni. Ma non è così, se si considera che, almeno nella sua versione più radicale, questa posizione viene giustificata dall’idea che, al di là delle condizioni concrete, bisogna sempre porsi in linea di principio nell’aspettativa di potere cambiare e (per così dire) rieducare anche l’autore dei più efferati crimini. Da qui l’esigenza di porre al centro dell’attenzione critica l’azione riprovevole e non i soggetti che la compiono.
Solleverò di seguito delle contro obiezioni e giungerò a delle conclusioni, almeno in parte, diverse. Tuttavia questa scelta di posizionamento, malgrado possa apparire estrema, deve essere presa sul serio e ritenuta, almeno nella considerazione di partenza, legittima e plausibile. Essa si basa infatti su quella affermazione della prevalenza dell’etica sulla politica, che io stesso ho posto, nella prima parte di questo saggio, come la questione centrale e caratterizzante la cultura e le pratiche ascrivibili alle scelte di nonviolenza.
In effetti, per sua stessa natura e nel senso più nobile del suo significato, l’etica non ha nemici da abbattere ma valori da affermare come universali all’interno della generalità delle pratiche relazionali. Il suo fondamento è la reciprocità come principio di eguaglianza e di responsabilità verso l’altro. L’etica non ama il realismo ma opera per la ricerca del meglio. Il suo punto d’arrivo ideale è “la distanza zero” tra gli individui: “l’altro in me e io nell’altro”. Il comportamento non etico dell’altro non può essere tolto con l’antagonismo ma con l’esempio e la persuasione.
Vista in questi termini l’idea della conversione del “nemico”, o meglio “dell’altro che sbaglia”, può essere considerata del tutto giustificata. L’etica in fondo è l’irruzione dell’ideale nel reale, l’impossibile che pretende di farsi possibile. In questo senso (e lo vedremo meglio di seguito) essa è l’esatto contrario della politica.
Tutto risolto dunque? La nonviolenza può proporsi di estirpare il male anche trasformando il malato che lo genera? Non proprio! In realtà le cose sono molto più complesse. Vediamo.
Si è detto di come la nonviolenza nasca dalla primazia dell’etica. Si dà tuttavia il caso che essa non sia una scelta che riguardi specificamente il campo dell’etica, ma si tratti al contrario di una ipotesi che si riferisce esplicitamente all’agire politico. Di più: Non si tratta di un fare politica in condizioni di normalità, nelle quali la dialettica delle posizioni si dà entro un quadro di accettazione condivisa delle regole date. Al contrario la nonviolenza nasce storicamente come teoria e pratica di una politica di ribaltamento rivoluzionario di un esistente da superare eal limite cancellare. Ne è chiara testimonianza il fatto che la sua storia viene fatta iniziare con le battaglie di Gandhi contro il colonialismo inglese in India, e vede poi i suoi momenti più significativi in situazioni di grande criticità ed eccezionalità, come le lotte di M. Luther King per l’emancipazione dei neri d’America, e di Mandela contro l’apartheid in Sudafrica.
C’è un complesso e difficile rapporto tra l’etica e la politica, che si pone quasi come paradossale. Per Aristotele entrambe fanno parte della praxis, intesa come il campo dell’agire umano nell’ambito della comunità. Ma esse, pur rappresentando le due facce della stessa medaglia, si differenziano decisamente. Alla propensione ideale dell’etica si contrappone la dimensione fortemente realista della politica.
La politica è l’arte del possibile perché essa è sempre finalizzata al conseguimento del risultato, nel più breve tempo che si renda necessario, in termini di vittoria di qualcosa contro qualcosa d’altro, e contro un nemico che quel qualcosa rappresenta e sostiene. Carl Schmitt ci ha spiegato come la politica sia l’arte di sapere schierare i fronti, creando una netta contrapposizione tra “amico” e “nemico”. A sua volta, molto tempo prima di lui, un altro tedesco, (anzi allora prussiano), C. Von Clausewitz ci ha detto che “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Espressione dalla quale potremmo dedurre per pura conseguenza logica che “La politica è la prosecuzione della guerra nei momenti di tregua armata”. In ogni caso ciò che rende omologhe, e in qualche modo simbiotiche, la politica e la guerra è la centralità del nemico da sconfiggere, seppure in modi che sono diversi, ed anche più o meno violenti, e che tuttavia nel corso della storia diventano spesso complementari.
In questo senso l’irruzione della nonviolenza, con le sue pretese di primazia etica, nel campo della politica rappresenta una grande scommessa. In questo sta la sua grandezza, ma anche tutte le difficoltà e le complesse questioni, spesso ancora non risolte, di questo sfidare ciò che per molti versi rappresenta un vero e proprio paradosso.
Da questo punto di vista, rispetto al quale i valori “disarmati” della nonviolenza tentano la scalata a mani nude della grande montagna fortificata del politico e della politica, è del tutto ammissibile spostare il punto d’imputazione del nostro fare rivoluzionario dal nemico in carne ed ossa al fatto da contrastare, e se possibile da cancellare dalla storia. Ma pure in questo caso, resta comunque il fatto che alla fine, in un modo o in un altro, il concreto darsi della dialettica e dello scontro politico, anche e a maggior titolo nella sua versione “rivoluzionaria”, presenterà il conto in termini di risultato conseguito o meno. In sostanza in termini di vittoria o di sconfitta. Una dinamica delle cose che non può non comportare anche una attenzione alla identità e all’agire dell’altro, del “nemico” o dell’antagonista.
In soldoni: per quanto si cerchi di oggettivizzare l’ingiustizia contro cui battersi, questa resta profondamente legata ai soggetti che la promuovono, la cui conoscenza è fondamentale per la comprensione delle cose, e che come sua inevitabile conseguenza non può non provocare anche un sentimento di profonda avversione come normale fatto di reazione umana, oltre ogni scelta etica o politica.
Se voglio comprendere l’olocausto non posso non volgere la mia attenzione anche al nazismo, ai suoi contenuti, alle sue scelte e ai suoi disvalori, e infine alle perverse motivazioni degli uomini che ne sono stati i portatori, senza non provare un forte sdegno nei loro confronti. Lo stesso vale per quanto sta oggi succedendo in Palestina: Se vedo un genocidio, non posso non vedere le mani insanguinate dell’assassino e non posso non provare orrore, che è anche umano si possa pure trasformare in odio, ma su questo torneremo. Prima ci interessa occuparci di un’altra questione.
Rispetto ai due esempi che abbiamo fatto, e al di là di ulteriori approfondimenti che non ci interessa fare, c’è comunque da marcare, ai fini del nostro discorso, una profonda differenza, oggettiva ed incontestabile. L’olocausto e il nazismo fanno ormai parte della storia che ha sostanzialmente espresso il proprio giudizio. Eventuali nuove acquisizioni o nuove riflessioni possono avvalersi del filtro della distanza temporale e non hanno l’impellenza di dovere misurarsi, ed eventualmente pretendere di volere influenzare o determinare, eventi che non si sono ancora conclusi. Al contrario il genocidio ai danni dei palestinesi è ancora in corso e i suoi esiti finali non sono al momento del tutto prevedibili, dunque su di essi si può ancora intervenire, e se si ha una certa visione delle cose, si ha anche il dovere di farlo.
(Apro una parantesi per chiarire che il richiamo incrociato all’olocausto degli ebrei e all’attuale situazione del conflitto israelo palestinese ha qui valore puramente strumentale. Si tratta evidentemente di un riferimento che nasce dalle personali convinzioni politiche di chi scrive, ma che, ai fini del ragionamento che qui si sta tentando di sviluppare, ha il carattere di un puro rimando esemplificativo, a prescindere dalle valutazioni di merito che si possono esprimere nello specifico)
Se dunque io voglio formulare giudizi che riguardino il presente e non solo fatti passati in giudicato dalla storia, in modo che il mio dire abbia valore non solo valutativo, ma anche performativo, io devo necessariamente trascendere la flemma dello storico e prendere partito. Per tornare ai nostri esempi (che ribadisco valgono come riferimenti a prescindere da quanto ognuno possa ritenerli giustificati o arbitrari), se “Il nazismo è stato sconfitto”, si dà invece il caso che “Israele deve essere sconfitto”. Questa circostanza mi impone il dovere di schierarmi, secondo quello che mi detta la mia coscienza e l’insieme delle opinioni che ho maturato rispetto alla vicenda in corso.
Un dovere che si presenta come non facile (ma che è comunque necessario), per chi ha fatto della nonviolenza una scelta etica ed esistenziale, specialmente in una situazione in cui vi è un confronto tra forze armate. Uno scontro tra l’uso illegittimo della forza perpetrato da parte dell’aggressore, portatore di morte e di distruzione, e l’uso della forza da parte di chi reagisce ad un atto di imperio, che, come abbiamo visto, deve essere considerato legittimo anche da parte di chi è schierato, in senso etico e in linea di principio, contro l’uso della violenza. Una necessaria presa d’atto della possibilità di usare la forza lasciata alla scelta di chi subisce, in nome della legittima difesa e del diritto di resistenza.
In queste circostanze di confronto estremo non si può eludere la questione dei mezzi necessari (purché pur sempre leciti) per giungere, in nome del bene e della giustizia, ad una conclusione positiva, a cui si può pervenire solo con la sconfitta chiara e definitiva dell’aggressore.
Un aggressore che non può essere evocato solo attraverso la condanna, asettica e impersonale, delle sue azioni, (e qui veniamo al nocciolo della questione), ma che deve essere chiamato in causa ed indicato con nome e cognome, perché risponda delle sue azioni di fronte al mondo intero. Non c’è in questo alcuna sete di rivalsa o di vendetta, nessun atto di premeditata violenza, ma semplicemente la consapevolezza che solo il giudizio unanime di condanna da parte della comunità internazionale e del comune sentire delle genti, ancora meglio se accompagnato da un senso di ripulsa e di disapprovazione e sdegno morale, può fermare le mani insanguinate dell’assassino. D’altra parte va considerato che l’altra sola possibile via che porta alla sconfitta dell’aggressore è quella di tipo militare. Una possibilità che si presenta comunque fattualmente difficile, visto che in genere l’oppressore e dominante è anche colui che è militarmente più forte. Ma poi soprattutto perché la sconfitta della violenza armata attraverso le armi, per la sua stessa intrinseca contraddittorietà, quasi mai produce in termini di pace, i frutti sperati.
La condanna ferma precisa pubblica e radicale degli autori dei crimini, esattamente individuati nelle loro responsabilità, non è figlia di un puro impulso d’odio, ma risponde piuttosto ad una necessità di giustizia, che nel suo essere vittoriosa, è foriera di pace, e come ora vedremo anche di riconciliazione.
In sostanza la coscienza del dominante, che opprime sfrutta e aggredisce i più deboli deve essere sconfitta e annientata. E se il termine annientare, nel senso di “ridurre a niente, distruggere completamente”, ma anche in senso figurato “dimostrare l’assoluta infondatezza di qualcosa” (cit. Oxford Languages), a qualcuno può apparire violento, ricordiamo che qui non ci stiamo riferendo a esseri umani nella loro integrità, ma alle loro “coscienze violente”, e non saprei dire quanto anche “false” o “infelici”, che a volte è giusto e necessario che le vicende storiche pongano di fronte alla pubblica umiliazione.
Ricordiamo, a tal proposito come esempio e giusto per chiarire la questione, che solo nel momento in cui in Sudafrica l’apartheid fu definitivamente “annientato”, ridotto cioè “a niente” ed estirpato dalle coscienze, al punto che nessuno avrebbe potuto trovare appigli di alcun genere per sostenerne una qualche forma di sopravvivenza, solo allora, e solo sulla base di questa radicalità, fu possibile avviare, sotto la spinta di Nelson Mandela, un vero processo di riconciliazione nazionale, che chiudendo definitivamente la questione poté affermare una convivenza civile basata sui valori e sui principi della nonviolenza. E pur tuttavia, e bene ricordare che anche in quel caso, che potremmo definire di scuola, la parola fine fu scritta attraverso dei pubblici processi nei quali, chi nell’ambito delle pratiche di segregazione razziale si era macchiato di atti criminali, veniva indicato e accusato, e veniva “condannato” alla conoscenza pubblica del suo operato e al conseguente biasimo collettivo. Questo probabilmente in ragione del fatto che esiste comunque un principio di giustizia (forse innato nella dimensione sociale dell’uomo), per il quale, nel bene o nel male, non esiste azione che non richieda una reazione o una compensazione che ripristini un ordine ed un equilibrio, valorizzato nell’agire positivo o violato nell’atto malevolo. Fu allora grande merito di Nelson Mandela avere permesso che questa riaffermazione del senso della comunità avvenisse senza sottacere nulla e senza ignorare le ingiustizie avvenute, ma attraverso l’esercizio di una giustizia di tipo riparativo, in cui la pena non veniva cassata, ma assumeva un valore puramente simbolico, che rimetteva a posto le cose senza perdonismi e senza lasciare strascichi in sospeso. Un fulgido esempio lasciato al tempo futuro su come vanno gestite le scelte e le pratiche della nonviolenza, che tuttavia poté avvalersi, in quel momento storico di condizioni particolarmente favorevoli.
Veniamo ora alla questione di quanto sia legittimo per il militante nonviolento usare espressioni di odio nei confronti del nemico contro cui ci si batte. Intanto sgombriamo il campo da quelle che personalmente considero delle esagerazioni. La proibizione dell’uso di termini dedotti dal linguaggio militare come “combattere”, “sabotare”, “battaglia” non può essere assoluta tenendo conto del valore figurato e metaforico che, come da vocabolario, questi termini possono assumere. Nella stragrande maggioranza dei casi il carattere violento di una comunicazione è dato dal tono generale del testo (ed è questa la cosa da valutare) piuttosto che dall’uso dei singoli termini.
In secondo luogo alla domanda se sia lecito riferirsi ai soggetti responsabili di azioni politicamente e umanamente riprovevoli, definendoli con termini forti del tipo “terroristi” “razzisti” “assassini” o altro, la risposta è: dipende dal contesto e dalle motivazioni. In fondo un termine in sé significa poco. Bisogna vedere innanzitutto se esso viene usato come un semplice epiteto urlato al solo scopo di screditare offendere e produrre odio, oppure se esso viene contestualizzato e il suo impiego viene esaustivamente motivato. Si tenga anche conto che fondamentale è il valore che ciascuno dà al singolo termine utilizzato. Se io do del sionista ad un esponente del governo di Israele non credo che l’interessato abbia nulla da ridire. Lo stesso sarebbe avvenuto un tempo con un affiliato del Ku Klux Klan a cui fosse stato affibbiato l’epiteto di razzista. Insomma dipende tutto dal contesto, dal registro linguistico adottato, dalle finalità della comunicazione. Regole generali e dinieghi assoluti di ordine puramente tecnico non se ne possono fare.
La vera questione è quella di andare oltre l’analisi meramente linguistica per capire le intenzioni del parlante, ma anche gli stimoli inconsapevoli che lo motivano. Si tratta di qualcosa di cui è tutt’altro che facile venire a capo, perché a monte della scelta delle parole con cui ci si esprime bisogna capire quali sono i sentimenti che ci animano. In sostanza, e tornando a noi, è possibile che un’espressione violenta sia il prodotto di una scelta consapevole, magari del dirigente di una organizzazione strutturata o del capo riconosciuto di un movimento che stanno redigendo un documento più o meno ufficiale. Ma è anche possibile che le parole si producano senza troppe riflessioni a partire dai sentimenti effettivamente provati, che possono essere reali sentimenti di odio. Nel primo caso viene da pensare al militante politico, nel secondo caso alla vittima. Ma la distinzione non è per nulla semplice. Spesso le vittime sono spinte dalla loro condizione a divenire militanti, e il militante politico grazie ad un processo di immedesimazione è portato a sentirsi vittima. In ogni caso i sentimenti sono parte essenziale dell’agire umano. Sentimenti e ragione si spartiscono alla pari la responsabilità dei nostri comportamenti, ma sul piano analitico essi vengono valutati in modo diverso. In genere i sentimenti non sono considerati un elemento costitutivo delle categorie dell’etica e del politico, ma come una semplice dato di fatto che si palesa nella pura dimensione concreta dell’agire e del fare. Un sentimento si prova e basta. Chiedersi se sia giusto o lecito provarlo non ha alcun senso. Chiedersi poi se sia ammissibile manifestarlo pubblicamente è cosa che mette in gioco un numero talmente alto di variabili che non credo sia possibile, e forse neppure utile, arrivare a stabilire delle regole generali.
In queste nostre discussioni tra compagni sulla natura della nonviolenza e su come possa essere possibile controllare i sentimenti, e quelli di odio in particolare, qualcuno ha fatto riferimento al Bhagavadgita, un testo fondamentale della cultura e della spiritualità indiana, nel quale si spiega come “una mente illuminata” è indifferente “al piacere e al dolore, al guadagno e alla perdita”, in sostanza come si possa avere il pieno controllo dei propri sentimenti, arrivando al limite di poterli trascendere. Io personalmente credo che questo riferimento può per certi versi aiutarci a capire, ma per altri versi complichi ulteriormente le cose.
Sul piano delle scelte e della crescita individuale di ciascuno non v’è dubbio di quanto importante possa rivelarsi il sentire questa tensione a perfezionarsi e ad acquisire sempre nuovi strumenti di consapevolezza e di autocontrollo, nel tentativo di trascendere, per quanto possibile, i propri limiti e le proprie debolezze. Migliorarsi mettendosi sempre in discussione nella consapevolezza che non c’è mai un traguardo di perfezione da potere raggiungere in modo definitivo, ma un percorso ininterrotto nel quale è necessario immergersi il più possibile. In sostanza, e ancora una volta, si mostra come la nonviolenza è innanzitutto un’etica della persona. Ma ancora una volta si palesano tutti i rischi di quel salto mortale che va dall’etica, che riguarda sostanzialmente le scelte individuali, verso le complicate incombenze della politica di massa.
Se vogliamo che le pratiche della nonviolenza diventino patrimonio comune è necessario che i percorsi individuali di tutti vengano messi al sevizio dei movimenti, in modo tale che il rifiuto della violenza si faccia pratica di massa, che in quanto tale si possa esprimere nella ovvia semplicità del suo significato generale, e al tempo stesso nella pluralità delle possibili interpretazioni. Perché questo fine sia raggiunto è necessario che il movimento nonviolento (o anche “non violento”, volutamente scritto separato a indicare una pluralità di indirizzi) si preservi tale, resti cioè “un movimento” con la molteplicità delle sue anime. Un fronte comune, unito intorno a pochi valori fondanti, e aperto, all’interno e all’esterno, alla dialettica delle differenze.
Il pericolo che sempre incombe su qualsiasi movimento o organizzazione è quello di assolutizzare e sclerotizzare le proprie posizioni fino a scadere nell’integralismo. Questo pericolo è particolarmente significativo per il fronte della nonviolenza proprio in ragione della sua prevalente natura etica. Forse non sarà male ricordare che l’etica nasce nell’ambito del pensiero greco antico, in quel periodo d’oro che va dai presocratici ai sofisti, in ragione della crisi della religione, almeno nella sua capacità di produrre regole comportamentali certe e unanimemente condivise. L’etica si presenta alle sue origini come una razionalizzazione dei valori relazionali la cui regolazione viene sottratta alla religione. Scadere nell’integralismo etico significa tornare ai mali del dogmatismo e dell’integralismo religioso, col rischio di divenire sul piano organizzativo una vera e propria setta. Qualcosa che potrebbe anche riproporre in veste nuova il pessimo integralismo politico della sinistra rivoluzionaria di vecchio stampo.
Niente di drammatico e in fondo niente di nuovo. I pericoli e gli incidenti di percorso sono sempre all’ordine del giorno per chi ha deciso di sporcarsi le mani con la storia. L’importante è conoscerli e prevenirli. Il futuro ci appartiene, e appartiene ai nostri figli, solo se fortemente lo vogliamo.