Intervista a Sara Chessa, giornalista indipendente che ha seguito il caso Assange, ed ha pubblicato con Castelvecchi editore il volume “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà di informazione”.
Nel dicembre 2023 l’Alta corte di giustizia di Londra ha deciso di esaminare quello che potrebbe essere in Gran Bretagna l’ultimo appello di Julian Assange contro la sua estradizione negli Stati Uniti. Sono stati fissati due giorni di udienza per il 20 e 21 febbraio 2024. In questo disperato tentativo di difesa da parte di Assange, i giudici dovranno decidere se egli ha ancora qualche possibilità di appellarsi a qualche Corte britannica oppure avviare le pratiche per un’imminente estradizione. Per parte sua Assange ha già trascorso quasi cinque anni nella prigione londinese di Belmarsh, ove è detenuto in attesa di giudizio dall’aprile 2019, detenzione che Amnesty International ha ritenuto per gran parte arbitraria.
Il 6 giugno del 2023 l’Alta Corte del Regno Unito ha rigettato il primo appello di Assange contro il mandato di estradizione, firmato dall’allora Ministra dell’Interno Priti Patel nel giugno 2022. Se venisse estradato, Assange potrebbe passare il resto della vita in carcere per l’accusa di aver pubblicato nel 2010 documenti segretati resi noti tramite Wikileaks. Assange si trova, quindi, in un momento critico della sua vicenda giudiziaria. Se dovesse perdere l’appello, tutte le vie legali nel Regno Unito sarebbero concluse e dovrebbe presentare formale ricorso alla Corte europea dei diritti umani per opporsi all’estradizione. Non è tuttavia chiaro se tale Corte vorrà garantire delle “misure ad interim” per fermare l’estradizione prima che la sua istanza sia giudicata ammissibile e poi valutata nel merito. L’offerta da parte degli Stati Uniti di una “rassicurazione diplomatica” potrebbe bloccare l’adozione di tali misure e in tal caso Assange correrebbe il rischio di un’immediata estradizione e conseguente detenzione negli Usa.
La pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti rivelati all’organizzazione da altre fonti rientra nella condotta che giornalisti investigativi ed editori possono legalmente tenere nell’ambito della loro attività professionale. Le accuse di spionaggio e di frode informatica contro Assange sono motivate politicamente e violano il diritto alla libertà di espressione. Inoltre, possono avere una “grave ricaduta” sulla libertà dei media a livello globale, spingendo giornalisti ed editori ad autocensurarsi per evitare il rischio di denunce.
In vista di questi giorni di udienza, fondamentali, fissati per questo 20 e 21 febbraio, abbiamo deciso di intervistare Sara Chessa, giornalista che si occupa di diritti umani e di libertà di informazione che ha seguito da vicino il Caso Assange raccontandone fatti e retroscena su testate come Independent Australia e MicroMega, autrice tra l’altro per Castelvecchi editore del libro “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione (con introduzione di Antonio Cecere e un’intervista inedita a John Shipton padre di Julian Assange)”.
Quanto è alto il rischio che Julian Assange possa essere estradato negli USA, e cosa comporterebbe?
Se consideriamo solamente la battaglia legale, mi sento di dire che il rischio è alto. Il team legale di Assange si è mosso molto bene per difenderlo dall’estradizione, ma il sistema giudiziario britannico ha sistematicamente evitato di riconoscere e affrontare i motivi chiave per cui la richiesta di estradizione degli Stati Uniti dovrebbe essere bloccata, primi tra tutti i rischi che essa comporterebbe per la libertà di stampa, essenziale per garantire il diritto alla conoscenza e mettere le persone in grado di valutare se i governi stiano perseguendo o meno l’interesse pubblico.
Questioni come queste avrebbero dovuto essere centrali nel negare l’estradizione; invece, si è finto di non vederle. Ora, giunti all’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria di Assange nelle corti inglesi, l’esitazione mostrata finora dal sistema giudiziario a toccare i punti chiave porta molti a pensare che anche quest’ultima occasione che esso ha per fermare l’estradizione verrà persa. Se accadrà – se la possibilità di fare appello contro l’estradizione gli verrà negata anche questa volta – il team legale di Assange presenterà tempestivamente ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, che, tuttavia ha tempi lunghi per giungere a una decisione. La speranza è che, con una misura basata sulla Regola 39, la Corte europea possa temporaneamente fermare il trasferimento negli Stati Uniti fino a quando non avrà preso una decisione sul caso. Se invece, al di là di quella legale, consideriamo la battaglia diplomatica, mi sento di dire che le probabilità di estradizione possono potenzialmente diminuire. L’amministrazione Biden, se opportunamente sollecitata dai suoi alleati, potrebbe archiviare le accuse anche subito. Una sollecitazione in tal senso è già stata compiuta dall’Australia.
Le proteste pacifiche di questi giorni mirano a portare altri governi occidentali a pronunciarsi sulla questione e domandare l’archiviazione delle accuse. Se la nostra mobilitazione è seria, se spingiamo affinché i governi facciano a Biden questa richiesta fondamentale, la probabilità di estradizione diminuiranno. In altre parole, la società civile gioca un ruolo fondamentale. Abbiamo il potere di ridurre, con la protesta pacifica, quel rischio di estradizione che ho definito “alto”.
Qualora, come ci auguriamo, Assange non venisse estradato, potrebbe tornare subito in libertà o vi è il rischio che sia costretto a rimanere in carcere per altro tempo?
Quando il 20 febbraio i giudici riesamineranno la questione del permesso di appello potranno presentare un verdetto dopo qualche settimana oppure alla fine della giornata di martedì. Se permetteranno ad Assange di fare appello, sarà molto probabile che lui resti in carcere fino al nuovo processo. È già accaduto dopo il primo “no” all’estradizione: gli avvocati fecero domanda per gli arresti domiciliari, ma la richiesta fu rigettata dalla giudice. Se stiamo invece parlando della auspicata archiviazione completa delle accuse da parte degli Stati Uniti, in tal caso Julian Assange sarebbe subito libero.
Cosa rappresenta il caso di Assange in merito alla violazione dei diritti umani e in particolare alla messa in discussione della libertà di stampa? Quale ricaduta potrebbe avere una sua estradizione, o continuo internamento in carcere, verso tutti quei giornalisti che si battono per il diritto all’informazione?
Il sistema dei diritti umani è l’obiettivo ultimo dell’attacco contro Julian Assange. Il processo sull’estradizione ha visto la continua violazione di diritti fondamentali. Primo tra tutti, il diritto ad un processo equo. Dal momento che i servizi segreti statunitensi spiarono Assange quando era rifugiato presso l’ambasciata dell’Ecuador e che tale stato permise all’intelligence americana di entrare in possesso dei documenti legali lasciati da Assange stesso nella sede diplomatica dopo l’arresto, gli Stati Uniti sono stati a conoscenza della sua strategia legale fin dall’inizio del processo. Questo avrebbe portato qualunque giudice di buon senso a stabilire che il processo sull’estradizione non dovesse neppure iniziare, in quanto un procedimento giudiziario non può essere considerato equo se una delle parti ha spiato le conversazioni avute dalla controparte con i propri difensori.
Riguardo poi alla libertà di stampa, sarebbe irrimediabilmente messa a rischio da una possibile estradizione, in quanto quest’ultima creerebbe un precedente internazionale in virtù del quale ogni giornalista che abbia rivelato fatti reali che imbarazzano una grande potenza potrebbe vedersi destinatario di una richiesta di estradizione da parte della stessa. Questo genererebbe un effetto deterrente nei giornalisti investigativi e la paura di subire persecuzioni simili a quella attraversata da Assange si farebbe più forte, ostacolando il servizio nei confronti del diritto alla conoscenza del pubblico che il giornalismo è chiamato a compiere. E, se gli operatori dell’informazione non si sentono liberi di indagare, non possiamo dire di essere realmente in democrazia, perché quest’ultima ha alle proprie fondamenta proprio il giornalismo libero che non avremmo più, quello capace di aiutare i cittadini a comprendere se i governi stiano perseguendo l’interesse pubblico o spasimando dietro interessi particolari. L’estradizione di Assange svuoterebbe la democrazia del significato che da sempre le abbiamo dato e aspiriamo a poterle dare.
Lei ha scritto un libro molto importante, avendo seguito il caso Assange molto da vicino. Per la sua esperienza personale come si è posta la stampa estera, quella australiana nei suoi confronti rispetto a quella italiana? Ha trovato più sensibilità e vicinanza verso Assange?
Il mio sindacato, la National Union of Journalists britannica, si è da subito schierata contro l’estradizione nell’aprile 2019. C’è voluto poi del tempo perché la sensibilità crescesse oltre i membri più attivi del sindacato stesso. Nell’epoca in cui la campagna diffamatoria contro Assange era più forte, anche i giornali britannici a internazionali ne erano condizionati. Per esempio, nonostante le accuse di stupro ricevute in Svezia e poi archiviate non fossero mai diventate capi di imputazione (sono rimaste sempre a livello di indagini preliminari), alcuni media parlavano di lui come di un “imputato per stupro”, cosa che non corrispondeva al vero. Negli anni attorno al 2018 e 2019 questi comportamenti erano molto frequenti e, come ho raccontato nel mio libro, un gruppo di attivisti si organizzò per censirli e combatterli chiedendo sistematicamente rettifiche a chi descriveva il caso in modo non rispondente a verità. Oggi la situazione qui nel Regno Unito è cambiata. Non conosco testate importanti che si mostrino favorevoli all’estradizione di Assange. Il Guardian, proprio ieri, ha pubblicato ancora una volta un articolo in cui sottolinea i rischi di questa estradizione per tutti noi ed ha ospitato anche un intervento di Reporter senza Frontiere.
Riguardo al Paese di cui Assange è cittadino, la testata per cui ho seguito il processo, Independent Australia, ha mostrato sempre interesse per il caso. Ritengo che lo stesso abbiano fatto molti altri media australiani.
Nel suo libro riporta una sua intervista al padre di Assange. Cosa può dirci di lui e della sua famiglia in generale? Come stanno vivendo questa difficilissima situazione?
Il momento che stanno attraversando non potrebbe essere più drammatico: Julian rischia di essere trasferito in un luogo in cui tutti i suoi diritti fondamentali potranno essere violati senza timore che qualcuno lo documenti, magari per tutta la vita. Una possibile vita di torture è l’orizzonte che questa famiglia disperata vede davanti a Julian. Nel 2021, i giudici del processo in secondo grado hanno capovolto il “no” all’estradizione e pronunciato un “sì” in virtù di alcune “rassicurazioni diplomatiche” in cui gli Stati Uniti promettevano di non porre Julian nelle misure amministrative speciali, un sistema di detenzione che moltissimi esperti di diritti umani equiparano a tortura o trattamento degradante. Agnes Callamard di Amnesty International, l’ex relatore Onu Nils Melzer e altre figure autorevoli hanno detto che le promesse degli Stati Uniti sono scritte in maniera tale da permettere loro di retrocedere in qualsiasi momento da quanto promesso. I giudici dell’Alta Corte hanno invece deciso di considerarle affidabili. Chi ha sentito i testimoni del processo in primo grado descrivere cosa siano le misure amministrative speciali non ha dubbi sulla loro disumanità. Neppure la famiglia di Julian può averli. E immaginare Julian in quel tunnel oscuro è un dolore immenso. Nonostante questo, l’amore è più forte della paura, e continuano a lottare senza sosta per vedere Julian – e il sistema dei diritti umani – vincere la battaglia assieme a tutti noi.