Secondo coloro che non credono nel cambiamento climatico, i drammatici appelli che noi ambientalisti lanciamo per fermare la distruzione ambientale potrebbero essere imprecisi; costoro dicono che sono esagerati gli allarmi per la sopravvivenza di una parte importante della biodiversità nel pianeta, compresa la specie umana. Alcuni pensano che il cambiamento climatico non sia dovuto solo all’impronta antropica, ma risponda anche a processi di profondi cambiamenti geologici a cui la Terra è sottoposta in maniera più o meno ciclica. Alcuni ritengono che non siamo così vicini al punto di non ritorno della curva suicida a causa del depauperamento delle condizioni di vita nel mondo ed all’impossibilità di attivare processi di rigenerazione o ripristino naturale di tali condizioni nel medio termine.
Se sono vere le argomentazioni di coloro che si oppongono ad una transizione urgente verso un’economia meno inquinante, ad un consumo meno sfrenato delle nostre risorse naturali, ci chiediamo: significa questo che abbiamo il permesso di continuare a devastare la vita sul pianeta? Possiamo rimandare l’obiettivo di smettere di usare energia altamente inquinante, così come mezzi di trasporto, metodi agricoli, processi produttivi o di sviluppo urbano che siano dannosi? Davvero c’è chi pensa che potremmo aspettare un altro decennio senza riorientare radicalmente il modo in cui viviamo e conviviamo su questo pianeta?
Riguarda la responsabilità sociale?
Parliamo di responsabilità sociale, sia a monte che a valle nei flussi dei nostri processi produttivi o di vita quotidiana. Ci riferiamo anche ai flussi migratori che, in una certa misura, esercitano pressioni e disagi su molte nazioni sviluppate e che rispondono a spostamenti climatici ed economici in gran parte causati dal deterioramento delle condizioni naturali di base per la produzione e la conseguente distribuzione dei benefici economici. Parliamo, quindi, di un modello insostenibile da molti punti di vista, non solo quello ambientale.
Alcuni rinomati scienziati non sono consapevoli degli effetti del cambiamento climatico e, soprattutto, della possibile correlazione tra le attività umane e il deterioramento della vita sul pianeta. Curiosamente, molti degli scienziati negazionisti lavorano o hanno lavorato a lungo per l’industria del petrolio e del carbone, il che ci pone di fronte ad un problema etico, più che scientifico e accademico, a causa del conflitto di interessi.
La scienza è davvero ascoltata quando ci avvisa sulla nostra vicinanza e, peggio ancora, sulla possibilità di aver superato i livelli di rischio o i limiti che non dovremmo superare negli impatti diretti e indiretti delle nostre attività umane? Nel dibattito pubblico viene usata una proporzionalità arbitraria tra le opinioni scientifiche di chi sta risolvendo il problema e di chi giustifica il rallentamento dei cambiamenti? Soprattutto, quale scienza e quali scienziati vengono ascoltati?
Qual è il dibattito pubblico?
Il dibattito pubblico e molti degli obiettivi nazionali e internazionali si basano sull’impronta di carbonio o sulle emissioni di CO2; tuttavia, l’impronta ecologica è qualcosa di più ampio e complesso, non si basa solo sul carbonio. Esistono centinaia di modi per inquinare e deteriorare la vita sul pianeta, i cui impatti hanno le fonti più diverse. Occorre esplicitare gli interessi dietro questa visione in modo da iniziare a parlare di soluzioni sistemiche in grado di risolvere molti problemi che colpiscono le nostre società.
Anche così, però, torniamo al dilemma su quale scienza e quali scienziati ascoltare.
Siamo arrivati ad un livello della politica pubblica che colpisce scienziati e attivisti indipendenti, ci riferiamo all’attivismo dei partiti in questa causa. Gli strumenti della politica pubblica (leggi, regolamenti, programmi, progetti e azioni di governo) per avviare misure volte a evitare, neutralizzare e mitigare gli impatti ambientali, senza ignorare le misure per compensarli, non possono basarsi sugli interessi dei partiti o dei gruppi di pressione. Questo è un problema che riguarda tutti.
Ad esempio, l’agricoltura deve essere sana, assolutamente innocua evitando la persistenza di agenti dannosi per la salute del consumatore, ma deve anche essere redditizia per l’agricoltore, nonché produttiva in volumi sufficienti affinché l’umanità non sia minacciata dall’insicurezza alimentare. Questo implica abbandonare il radicalismo ecologico e guardare alle soluzioni tecniche e tecnologiche che migliorino o tendano a rendere più efficienti i processi agro produttivi e rendano anche più equo il commercio alimentare, ciò che ci invita a concordare soluzioni tra le parti e, soprattutto, a continuare ad andare avanti.
Un altro caso può essere visto nello strano legame che esiste tra le misure di compensazione ambientale ed il mercato dei crediti di carbonio. Cresce il numero di aziende che hanno individuato questa scorciatoia per evitare di essere multate per le proprie emissioni e, invece di evitarle e neutralizzarle, stanziano ingenti somme di denaro per campagne ambientaliste in spazi esterni ai loro processi produttivi. Si potrebbe considerare questo greenwashing?
Ecco perché siamo insoddisfatti
Noi attivisti non siamo soddisfatti del fatto che si abbia un equilibrio, un impatto neutrale, cioè che si compensino le proprie emissioni con investimenti ambientali, culturali ed educativi in un’altra parte del mondo (come consigliano il Patto verde 2050 e la Tassonomia verde europea), dobbiamo fare ancor di più. Vogliamo, soprattutto, che si evitino le emissioni nocive e l’uso eccessivo delle risorse naturali, e che il bilancio sia sempre positivo in termini di risoluzione del problema sia nell’ambito locale che in quello strategico, compresa l’intera filiera.
Prima di incolpare il cambiamento climatico per le nostre catastrofi ambientali e prima di chiamarle violenza climatica, dobbiamo sapere che le nostre azioni non ci stanno portando alla soluzione più sostenibile per garantire la continuità della civiltà come la conosciamo. Il cambiamento climatico è esso stesso una conseguenza; la causa ultima di siccità pronunciate e di inondazioni crescenti è uno sfruttamente eccessivo delle risorse naturali.
Prima del cambiamento climatico ci siamo noi e la responsabilità sociale che dobbiamo avere sulle nostre azioni e sui nostri progetti futuri. Le nostre impronte non sono l’effetto della paleo trasformazione terrestre; siamo i carnefici del nostro destino e della nostra Terra Promessa.