Il summit di Roma, che ha visto riuniti 25 capi di Stato e di governo dell’Africa e i vertici dell’Unione Europea, è stato un successo mediatico della premier Giorgia Meloni. Ma, se si toglie il velo della propaganda al finora misterioso Piano Mattei, l’ambizioso programma di interventi con cui si vorrebbe finanziare lo sviluppo dei Paesi africani si rivela per quello che è: il nulla in cambio delle forniture di gas e del blocco dei flussi migratori. I 5,5 miliardi messi a disposizione dal governo italiano non sono, peraltro, somme nuove ma lo storno da capitoli preesistenti del bilancio statale, di cui 3 miliardi dal fondo italiano per il clima e 2,5 dal fondo per la cooperazione allo sviluppo.
Dunque l’Italia mette sul piatto la risibile cifra di 5 miliardi e mezzo per aiutare un continente che, secondo le stime dell’ONU, annovera 33 dei 46 Paesi più poveri al mondo, con una popolazione in forte crescita, e il cui debito pubblico assomma a 1.100 miliardi di dollari. Da notare, tuttavia, che i 3 miliardi sono vincolati alla lotta al cambiamento climatico, lotta che l’Italia dovrebbe fare importando dall’ Africa più combustibili fossili, che sono la prima causa del cambiamento climatico!
In realtà, in cosa dovesse consistere il Piano Mattei lo aveva anticipato già un anno fa il vero ministro dell’energia e dell’ambiente dell’Italia, l’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi (Pichetto Fratin è solo un prestanome). In una intervista rilasciata il 6 gennaio 2023 al Financial Times Descalzi ha detto: “Noi non abbiamo energia, loro ce l’hanno. Noi abbiamo un grande sistema industriale, loro lo stanno sviluppando. C’è una grande complementarietà”. L’Ad di ENI ha anche vantato il rapporto di lunga durata che la multinazionale ha con il continente: “abbiamo investito molto in Africa in un periodo in cui nessun altro aveva investito”. Investimenti che non riguardano solo l’Oil & Gas ma anche la produzione di oli vegetali dai territori africani per le proprie bioraffinerie, o progetti per produrre idrogeno verde da portare in Italia attraverso grandi idrogenodotti; il che implicherebbe l’utilizzo di elevati quantitativi di acqua in un continente in forte sofferenza per siccità e desertificazione.
La parte del leone la fa però il gas, che è la chiave del Piano Mattei. I mass media ci hanno reso edotti fino alla noia dei contratti firmati da Descalzi, con accanto la premier Meloni, con i vari Paesi africani che dispongono di grandi giacimenti di metano. L’accordo firmato con l’Algeria prevede l’importazione aggiuntiva di nove miliardi di metri cubi di gas. In Congo verrà realizzato un nuovo impianto di liquefazione. Anche il Mozambico, dal quale sono già arrivate le prime metaniere, ha un ruolo centrale per l’importazione del GNL. In Egitto, dove l’ENI è presente da molti anni, il cane a sei zampe investirà altri 7,7 miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Anche con la Libia, Paese martoriato dalla guerra civile, è stato firmato un accordo per estrarre più gas.
A cosa dovrebbe servire tutto questo gas? A realizzare il disegno, coltivato da tempo dall’ENI e dalla Snam, e sostenuto a spada tratta dal governo, di diventare l’hub del gas del sud Europa. Un disegno che, però, metterà in piedi un colosso costruito sulla sabbia, perché i consumi di metano sono in picchiata non solo in Italia ma in tutta Europa. In Italia si è passati dai 76 miliardi di metri cubi del 2021 ai 68,5 del 2022, e nel 2023 si è avuta una ulteriore discesa a 63 miliardi di mc, con una diminuzione dell’8 per cento. Un vero e proprio crollo che investe tutti i settori: le utenze industriali, le centrali termoelettriche e soprattutto i prelievi domestici per il riscaldamento. Secondo gli analisti del settore si tratta di un fenomeno non congiunturale ma strutturale, dovuto a vari fattori: l’aumento delle temperature, il maggior efficientamento energetico degli edifici, la tendenza al risparmio che si va consolidando e la crescita delle fonti energetiche rinnovabili, già oggi più competitive rispetto alle fonti fossili. Ciò vuol dire che ormai ci siamo lasciati alle spalle il picco massimo dei consumi di gas, i quali continueranno a scendere negli anni a venire.
Lo stesso scenario si sta verificando in Europa, dove la diminuzione dei consumi appare ancora più accentuata. Secondo un rapporto dell’agosto scorso del Forum degli Esportatori di Gas (GECF), che raggruppa una dozzina di Paesi esportatori al di fuori degli Stati Uniti, il consumo di metano in Europa è diminuito del 10,6 per cento nella prima metà del 2023 e, anche se mancano ancora i dati ufficiali dell’intero anno, lo stesso rapporto ha stimato che il consumo “difficilmente si riprenderà in modo sostanziale nei prossimi sei mesi”.
Uno studio dell’ottobre 2023 dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa) evidenzia che l’Europa sta andando verso un eccesso di capacità di rigassificazione, mentre la domanda di gas continua a scendere. Ana Maria Jaller-Makarewicz, analista Ieefa, ha spiegato che “il calo della domanda di gas sta mettendo in discussione la narrativa secondo cui l’Europa ha bisogno di più infrastrutture Gnl per raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza energetica. I dati dimostrano che non è così. Nonostante i significativi progressi verso la riduzione del consumo di gas i Paesi europei rischiano di rinunciare alla dipendenza dai gasdotti russi per un sistema Gnl ridondante che espone ulteriormente il continente alla volatilità dei prezzi”.
Questo significa che tutti gli investimenti che l’Italia sta facendo per la realizzazione di nuovi impianti metaniferi hanno una elevatissima probabilità di diventare stranded asset (beni incagliati). Ma i costi di queste nuove infrastrutture – tra cui spicca il grande metanodotto Linea Adriatica da Sulmona a Minerbio, i rigassificatori di Piombino e Ravenna, e i rigassificatori in programma di Gioia Tauro e Porto Empedocle – saranno riversati sulle bollette degli italiani contribuendo ad un immotivato aumento del prezzo del gas. Pertanto il sogno dell’hub del gas resterà tale ma nello stesso tempo provocherà sicuri danni sotto il profilo economico, climatico e ambientale.
Il Piano Mattei, imperniato sulla maggiore estrazione di combustibili fossili dall’Africa, produrrà con ogni probabilità effetti opposti a quelli sperati dal governo italiano. Infatti, l’ulteriore sviluppo delle fonti fossili non farà altro che accentuare il cambiamento climatico, le cui conseguenze colpiscono soprattutto i Paesi più fragili e quindi più vulnerabili come quelli del continente africano. L’ONU, tramite i propri organismi (come WMO e IPCC), ha stimato che da oggi al 2030 circa 700 milioni di africani saranno costretti ad abbandonare i loro territori di origine a causa del cambiamento climatico. Questa enorme massa di “migranti climatici” si riverserà soprattutto nelle aree limitrofe e quindi, attraverso il Mediterraneo, in Europa. Di conseguenza il fenomeno migratorio, anziché ridursi, farà registrare una crescita tale da non essere assolutamente paragonabile alle dimensioni odierne.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) ha indicato che la strada da percorrere, per la crescita e lo sviluppo sostenibile del continente africano, è invece quella delle fonti energetiche rinnovabili. Infatti – sottolinea l’IEA – l’Africa possiede circa il 60 per cento di tutte le aree che, a livello mondiale, sono adatte alla produzione di elettricità da fotovoltaico, ma soltanto l’1 per cento di questa potenza fotovoltaica è installata nel continente. Il think tank ECCO, nel documento del settembre 2023 “Quale strategia italiana per l’Africa?” scrive che “la presenza di grandi compagnie petrolifere internazionali ha permesso all’Africa di produrre ed esportare grandi quantitativi di idrocarburi, senza alcun beneficio per la popolazione locale della ricchezza creata. Al contrario, in diversi Paesi produttori, e con una significativa presenza di compagnie occidentali, i ricavi e le royalties relativi al gas e al petrolio hanno spesso nutrito corruzione e clientelismo e rafforzato disuguaglianze e ingiustizia sociale”.
Una dura critica alla nuova legge sul Piano Mattei, adottata dal Parlamento italiano il 10 gennaio scorso, è stata formulata da ottanta organizzazioni della società civile africana attraverso un documento indirizzato, in occasione del summit di Roma, al Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni e al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Antonio Tajani. Le organizzazioni firmatarie dell’appello lamentano in primo luogo il rischio che “il coinvolgimento dei partner africani potrebbe essere limitato alla élite e alle multinazionali africane, aggirando così la voce della società civile africana”.
E’ necessario, si legge nel documento, “porre fine agli approcci neocoloniali da parte dei Paesi europei”. Netta l’opposizione a progetti basati sulla estrazione di combustibili fossili: “questa corsa al gas in Africa è pericolosa e miope; chiediamo la cooperazione per incrementare l’energia rinnovabile incentrata sulle persone per soddisfare le esigenze di 600 milioni di africani che non hanno accesso all’energia”. Sul rapporto tra cambiamento climatico ed emigrazione la denuncia è chiara: occorre “riconoscere l’enorme ruolo che la crisi climatica gioca nella migrazione e perché la continua corsa al gas in Africa da parte dell’Italia e di altre nazioni europee sta perpetuando l’emergenza climatica così come la crisi alimentare e di sicurezza che a sua volta costringe le persone africane a migrare pericolosamente verso l’Europa”.