1. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione sul caso dei respingimenti collettivi illegali a Tripoli operati nel 2018 dal rimorchiatore italiano ASSO 28 esponenti di governo e giornali di destra hanno cercato di sminuire la portata del riconoscimento, contenuto nella sentenza, che la Libia, almeno in quell’anno, non sarebbe stato un “paese sicuro”.Solo che alcune confutazioni si sono limitate ad una vecchia Nota della Direzione generale affari interni della Commissione europea del 2019, recepita prontamente dal Ministero dell’interno, che avrebbe sottolineato i “progressi” fatti dai libici, anche con il supporto europeo, in particolare nella gestione della zona SAR (ricerca e salvataggio) autoproclamata nel giugno del 2018, e nelle correlate attività di soccorso/intercettazione. Ma quella nota era un mero atto di indirizzo politico privo di effetti vincolanti, e non corrispondeva neppure, come si vedrà, alla situazione di fatto allora accertata dalle Nazioni Unite. Mentre invece era in Italia che, con direttive ministeriali, seguite da decreti legge, si decideva davvero di rifiutare l’applicazione delle norme di diritto internazionale del mare, e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, malgrado il chiaro dettato degli articoli 10 e 117 della Costituzione.

Nel mese di marzo del 2019, poco prima del Decreto sicurezza bis n.53/2029, l’allora ministro dell’interno Salvini adottava una Direttiva sulla sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto dell’immigrazione illegale, “ribadendo la piena legittimità degli interventi di soccorso dei libici, anche perché la presenza dell’OIM garantisce il rispetto dei diritti degli immigrati e nel contempo salvataggi più rapidi”. Ma l’OIM, agenzia delle Nazioni Unite, replicava con estrema fermezza :“Confermiamo che la Libia non può essere considerato porto sicuro e l’Oim non è garanzia del rispetto dei diritti umani nel paese – dichiarava il portavoce Flavio Di Giacomo –Siamo presenti nei punti di sbarco e forniamo prima assistenza ma poi i migranti vengono trasferiti in centri di detenzione chiusi dove vengono mandati anche bambini ed è una detenzione arbitraria. Quindi anche se noi siamo autorizzati ad entrare in questi centri e forniamo materiali e moduli per i ritorni volontari nei paesi d’origine, l’Oim non li gestisce nè in alcun modo può garantire il rispetto dei diritti umani. Anzi reputiamo le condizioni di questi centri inaccettabili come è stato ampiamente documentato. La nostra catena di protezione ai migranti riportati in Libia si ferma di fatto dopo il trasferimento dei migranti nei centri di detenzione”Come ricordato nel 2019 dall’Alto commissario dell’UNHCR Filippo Grandi, la presenza dell’organizzazione in Libia “non deve essere strumentalizzata da nessuno per negare l’accoglienza ai richiedenti asilo e ai rifugiati in Europa”.

La Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e la presenza in alcuni punti di sbarco, o le visite in qualche centro di detenzione da parte di operatori dell’UNHCR in collaborazione con altre organizzazioni umanitarie, seppure si tenti di valorizzarle sempre di più, non possono bastare per ritenere la Libia un paese in grado di garantire porti di sbarco sicuri.

Negli anni passati infatti sono stati proprio rappresentanti delle principali agenzie delle Nazioni Unite, che hanno ammesso che, dopo lo sbarco, la maggior parte dei migranti spariva, per finire nei centri di detenzione, informali e governativi, nei quali venivano sottoposti ad abusi indicibili e ad estorsioni continue.

 

2. Nel 2021, OIM e UNHCR ribadivano che nessuno, dopo essere stato salvato in mare, dovrebbe essere riportato in Libia. Secondo il Diritto internazionale del mare, gli individui salvati devono essere fatti sbarcare in un porto sicuro. Il personale dell’OIM e dell’UNHCR era presente in alcuni punti di sbarco in Libia per fornire assistenza umanitaria.” Tuttavia, le due organizzazioni ribadivano che “mancavano le condizioni di base per garantire la sicurezza e la protezione dei migranti e dei rifugiati soccorsi dopo lo sbarco; pertanto, la Libia non può essere considerata un porto sicuro”. In assenza di meccanismi di sbarco prevedibili, chi opera soccorsi in mare non dovrebbe essere obbligato a riportare rifugiati e migranti in luoghi non sicuri“.

Già nel 2021 il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, dopo la Raccomandazione del 2019, pubblicava il Rapporto “Una richiesta di soccorso per i diritti umani. Le crescenti lacune nella protezione dei migranti nel Mediterraneo“, chiedendo espressamente agli Stati costieri di non penalizzare le attività di ricerca e salvataggio delle ONG e di non cooperare con la Guardia costiera libica nelle intercettazioni in alto mare che diventano respingimenti collettivi su delega europea ed italiana. Richieste respinte al mittente dai diversi governi italiani che si avvicendavano nel tempo.

 

3. Malgrado queste chiarissime posizioni adottate dalle Nazioni Unite e dal Consiglio d’Europa, l’Italia ha periodicamente rinnovato il Memorandum d’intesa con il governo di Tripoli del 2017,che al suo interno comprendeva il richiamo alle intese operative stabilite con le autorità di Tripoli per il contrasto dell’immigrazione irregolare, ed in particolare con la Guardia costiera libica, già previste nel Protocollo aggiuntivo firmato nel 2007, come uno degli ultimi atti del governo Prodi, con Amato ministro dell’interno. Nel 2022 con il governo Draghi, il Parlamento italiano votava uno stanziamento straordinario di 12 milioni di euro per finanziare le missioni militari in Libia e supportare la sedicente guardia costiera libica, emanazione della milizia paramilitare GACS (General Administration for Coastal Security).

Alla fine del 2022 il Parlamento europeo prendeva però atto che “nonostante i colloqui facilitati dalle Nazioni Unite tra la Camera dei rappresentanti libica e gli organi legislativi dell’Alto Consiglio di Stato al Cairo e a Ginevra nel giugno 2022 abbiano portato a un livello di consenso senza precedenti su diverse questioni di lunga data, comprese la distribuzione dei seggi tra le due camere legislative, la ripartizione dei poteri tra le diverse autorità esecutive e la delimitazione delle province, non è stato possibile trovare un accordo su una costituzione ampiamente condivisa o un quadro giuridico per le elezioni”. Una situazione di stallo che continua ancora oggi, malgrado la frenetica attività diplomatica italiana, e sulla quale si sono innescate le crisi nei paesi del Sahel. Mentre le politiche espansionistiche di Egitto, Turchia e Russia hanno messo in secondo piano il ruolo dell’Italia, e dell’Unione europea, in Libia, anche per quanto concerne il controllo delle frontiere marittime. E intanto si aggravava la situazione di abusi sistematici e degrado ambientale dei centri di detenzione controllati da milizie che ormai bloccano periodicamente gli impianti petroliferi per ottenere quello che vogliono, e sfuggono ai tradizionali canali di collaborazione, e di servizio, con le autorità militari e di sicurezza libiche supportate dall’Italia, anche a garanzia dei grandi gruppi economici italiani (a partire da ENI) presenti da anni in Libia.

Nel mese di marzo del 2022 un nuovo Rapporto della missione Onu in Libia all’attenzione del Consiglio dei diritti umani a Ginevra, confermava “recenti prove che testimoniano come la tortura sia praticata ripetutamente e continuativamente contro i detenuti. Ciò include luoghi di detenzione ufficiali e siti gestiti dalle milizie che agiscono sotto l’egida dello stato libico. Inoltre, molte delle prigioni, che erano state dichiarate chiuse, operano invece in segreto e i rappresentanti Onu sottolineano come, in molti casi, le autorità non hanno eseguito gli ordini di rilascio dei detenuti”.

 

4. Durante una recente audizione in Commissione Libe sul naufragio di Pylos che il 14 giugno 2023 è costato la vita ad almeno 500 migranti, la commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva Johansson, ha ammesso che “con alcuni Paesi vicini è più difficile collaborare, come con la Libia, dove ci sono chiare indicazioni di criminali che si sono infiltrati nella Guardia Costiera.

In un Rapporto di Human Rights Watch (HRW) diffuso l’11 gennaio 2024, nel quale si citavano anche i precedenti documenti delle Nazioni Unite, si confermava la persistente presenza in Libia di “migranti e richiedenti asilo (che) soffrono condizioni disumane, torture, lavoro forzato e aggressioni sessuali in detenzioni arbitrarie e indefinite controllate dai ministeri degli Interni sia dell’Est che dell’Ovest o in strutture controllate dai trafficanti”. .Secondo questo rapporto, “il Ministero della Giustizia ha detenuto migliaia di persone in detenzione prolungata senza processo, in carceri gestite solo nominalmente dalle autorità ma effettivamente controllate dalle milizie, che hanno sottoposto i detenuti a condizioni disumane tra cui grave sovraffollamento, maltrattamenti e tortura”.

 

5. Nel corso di un recente incontro con Trabelsi, ministro dell’interno del governo provvisorio di Tripoli, segnalato nel 2018 dal Dipartimento di Stato Usa, nel Rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, per contrabbando di petrolio e traffico di esseri umani, il ministro Piantedosi, in missione a Tripoli,dopo una intensa attività diplomatica condotta dalla nostra ambasciata, lo ha ringraziato “per l’amicizia e per la collaborazione nelle numerose iniziative in tema di lotta ai trafficanti di esseri umani, che evidenziano dei primi risultati tangibili”. Al processo di Palermo nei confronti del senatore Salvini per il caso Open Arms del 2019, seguito in diretta da Radio Radicale, lo stesso ministro Piantedosi ha distinto tra centri di detenzione governativi e illegali, in Libia, perchè in mano ai trafficanti, dichiarando, con un riferimento temporale non meglio precisato, ma che, se reso in quel processo non può che risalire a quell’anno, che “l’Italia si coordina con le istituzioni libiche che gestiscono campi di detenzione legalmente”. E’ invece documentato, dai rapporti internazionali richiamati in precedenza, fino al 2024, che gli abusi in danno dei migranti vengono perpetrati anche nei cd. centri “governativi”, che pure, in realtà, sono in situazioni diverse uno dall’altro, anche in base al peirodo, a seconda delle milizie che ne detengono il controllo.

A marzo dello scorso anno esperti delle Nazioni Unite hanno concluso che le forze di sicurezza e i gruppi armati in Libia, con riferimento al periodo dal 2021 al 2023, potrebbero aver commesso una “vasta gamma di crimini di guerra e crimini contro l’umanità” contro libici e migranti, lanciando un appello urgente alla “responsabilità per porre fine a questa pervasiva impunità”. Il rapporto finale della Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia (FFM) ha documentato abusi di vasta portata, tra cui “repressione di gruppi civici, detenzione arbitraria, omicidio, stupro, riduzione in schiavitù, uccisioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.

Secondo la missione delle Nazioni Unite in Libia. nel 2023 risulta provato che “l’Unione Europea e i suoi Stati membri, direttamente o indirettamente, abbiano fornito supporto monetario e tecnico e attrezzature, quali imbarcazioni, alla Guardia Costiera libica e al Direttorato per Lotta alla migrazione illegale, che è stato utilizzato nel contesto dell’intercettazione e della detenzione di migranti“. L’accusa, contenuta nel rapporto, è formulata “sulla base di prove sostanziali”. In base alle testimonianze rese dai migranti intrappolati in Libia alla missione delle Nazioni Unite, ci sarebbe la “prova schiacciante” di torture sistematiche, messe in atto dalle autorità a capo dei centri di detenzione, tra cui anche il Direttorato per la Lotta alla migrazione illegale (DCIM) e la Guardia Costiera libica (LCG). La stessa missione delle Nazioni Unite, confermando i rapporti degli anni precedenti, ha documentato “fondati motivi per ritenere che il personale di alto rango della Guardia costiera libica sia colluso con trafficanti e contrabbandieri, che sarebbero collegati a gruppi di milizie, nel contesto dell’intercettazione e della privazione della libertà dei migranti”.

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