Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo una breve parte dell’Introduzione dei curatori del libro Pace oltre frontiere. No al disordine globale delle guerre sovraniste, il Biennale di PRESSENZA – 22\24  (a cura di Toni Casano e Daniela Musumenci, Multimage, 2024)_

 

Da quando si è aperto il fronte di guerra ucraino con l’invasione russa, la narrazione massmediologica occidentale sembra quasi voler accreditare nell’opinione pubblica un immaginario in cui prima sul pianeta si vivesse nel mare della tranquillità della pace: un nuovo provvidenziale ordine del mondo si sarebbe instaurato a partire dalla metà dello scorso secolo, con la fine della seconda fase della lunga guerra mondiale iniziata nel ’14 -’18, e consolidato poi nell’89 con l’implosione della vecchia Unione Sovietica, a seguito dell’estenuante guerra fredda che aveva tenuto sospese su un fil sottile le sorti dell’umanità.

Con il crollo del regime sovietico e l’accettazione sul piano globale della superiorità del sistema capitalistico, si faceva largo nelle democrazie occidentali, ormai convertitesi al pensiero unico neoliberal-liberista, la credenza assoluta che non ci sarebbero più stati pericoli bellicisti di portata universale che potessero minacciare la tenuta pacifica dell’ordine mondiale. I fuochi di guerra che ancora si registravano su scala regionale erano considerati fisiologici; la loro bassa densità poteva essere posta sotto controllo, legittimando il ruolo di polizia internazionale dell’impero a guida americana, grazie al potente apparato tecnologico-militare messo in campo. V’era la convinzione che mai più potessero determinarsi crisi tali da mettere in dubbio l’equilibrio pacificato. In altri termini la convinzione maturata era che l’assetto imperiale avrebbe risolto la questione della governabilità della Terra e che la nuova governance avrebbe superato tutti gli strascichi lasciati sul tappeto della storia. Basti pensare che al tempo di Boris Eltsin, dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, si era sul punto di allargare la Nato a quella che era stata un tempo l’Armata Rossa.

Insomma v’è una campagna mediatica del sistema di comunicazione di massa, basata su una narrazione propagandistica, con la quale – allo scopo di attribuire unilateralmente le responsabilità della crisi e il diritto di muovere in armi per lavarne l’offesa – si intende fissare temporalmente la genesi di un possibile nuovo conflitto mondiale al momento in cui si è registrato l’atto deflagrante, come se il dramma che stiamo vivendo non fosse dettato da profonde ferite preesistenti, da nodi non sciolti che riaffiorano al pettine.

Oggi datiamo gli eventi a partire, da un lato, dalla «invasione dell’Ucraina» e – dall’altro – dall’«attentato del 7 ottobre». Così, nel caso della guerra ucraina, gli accordi di Minsk vengono dimenticati e, invece, sono le “improvvise” mire espansionistiche di Putin – le quali non si fermerebbero a Kiev – che legittimerebbero il sostegno euro-atlantico a Zelensky (situazione che rischia di trascinare l’Europa in pieno in un conflitto totale). Parimenti, (cancellata l’ultraquarantennale questione-Palestina nell’area medio-orientale, con varie risoluzioni-ONU disattese dallo stato israeliano) la “legittima” occupazione sionista manu militari di Gaza sarebbe l’effetto causato dall’attacco terroristico da parte di Hamas. Atto, anche quest’ultimo, “imprevedibile” e che giustificherebbe la barbarie dell’esodo forzato della popolazione dalla Striscia, come una seconda Nakba – dopo quella del ’48 – se non il deliberato perseguimento di un malcelato genocidio, poiché l’esistenza stessa del popolo palestinese costituirebbe una sorta di “minaccia permanente” per la sicurezza d’Israele.

Si annullano così le ragioni delle determinazioni storiche, non quelle – si badi bene – risalenti alla notte dei tempi, ma quelle generate a seguito dell’instaurazione di quell’ordine mondiale di metà Novecento che, a partire dal nuovo millennio, è entrato in aperta crisi, da cui originano le “nuove trincee”, con la conseguenza di alzare -allargandolo sempre più – il vortice della spirale bellicista, lasciando in campo come unica opzione possibile soltanto quella di uno stato infinito di guerra permanente.

Come fa osservare Noam Chomsky, nell’intervista che apre le pagine di questo nostro biennale, «nella sua follia criminale, Putin ha fornito a Washington un enorme dono: stabilire fermamente il quadro atlantista per l’Europa gestito dagli Stati Uniti ed eliminare l’opzione di una “casa comune europea” indipendente, una questione annosa negli affari internazionali fin dall’origine della Guerra Fredda. Personalmente – continua il linguista del MIT – sono riluttante a spingermi fino ad abbracciare le teorie delle fonti altamente qualificate che concludono che Washington abbia pianificato questo risultato, ma è abbastanza chiaro che si stia verificando. E, forse, chi fa i piani a Washington non vede alcun motivo per agire andando a cambiare ciò che è in corso». A quanto predetto si devono aggiungere i grandi benefici che la guerra porta con sé all’economia americana, soprattutto per la lobby dell’industria dei combustibili fossili che capeggia il partito negazionista della crisi climatica e che, come dice Chomsky, “tornerà probabilmente presto al potere, in modo che possa riprendere la dedizione dell’ amministrazione Trump a distruggere tutto nel modo più rapido ed efficace possibile”.

D’altra parte, questo nuovo disordine mondiale va inserito, per essere compreso, nel quadro – economico oltre che geopolitico – del conflitto che va delineandosi su scala globale fra i paesi BRICS (Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica e – a breve – anche gli Emirati Arabi ed altri ancora probabilmente) in ascesa e gli USA in declino, che tentano – trascinando con sé anche l’Europa – di salvare un primato esclusivo finanziario e commerciale, a costo di bloccare la transizione del sistema produttivo che sembrava avviato verso un’economia compatibile ecologicamente sostenibile.

In effetti, sulla stessa linea americana, accanto all’euroatlantismo si stanno aprendo grandi varchi anche in Europa ad un certo “negazionismo moderato”, il quale è riuscito a fermare le spinte ecologiste contenute nel quadro delle politiche energetiche contemplate in quel che era l’originario piano di ripresa e rilancio economico post-pandemico: il Next generation Eu, lo strumento finanziario deliberato dal Consiglio Europeo per risanare le perdite causate dalla crisi epidemiologica del famigerato coronavirus.

Già con il governo Draghi ancora in carica, dalla transizione ecologica si è passati alla “transizione energetica”, avvertendo la necessità di stabilire “realisticamente” un più lungo periodo di conversione degli apparati di produzione industriale. Ed ancor prima dell’esplosione della guerra – posta artatamente a giustificazione (con le sanzioni-harakiri e la chiusura dei rubinetti della Gazprom, caldeggiata dagli USA e supinamente accettata dall’UE) – la bolletta dei consumi energetici è cresciuta in modo stratosferico. Una esplosione del tutto ingiustificata, quasi a voler imperiosamente affermare che il prezzo della transizione ecologica, così come “naturalmente” impongono le leggi di mercato, debba essere sopportato dalle spalle della gran massa dei consumatori, con l’indebitamento generale della società, anche a costo d’aggravare oltre il limite della tollerabilità la pressione sulle condizioni di vita, che avrà ricadute sulle generazioni a venire.

Sempre in tema di transizione ecologica, proprio mentre scrivevamo questa Introduzione, si è celebrata a Dubai, negli Emirati Arabi, l’assise del greenwashing. Ovvero, la solita pantomima del vertice mondiale sull’azione per il clima che ha dato il via alla 28a conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28).

Ebbene, dal primo ministro italiano, Giorgia Meloni (che si candida come leader di una coalizione destra-destra alle prossime elezioni europee, ambendo alla conquista della maggioranza a Strasburgo), al presidente del vertice-Cop28, Sultan Al Jaber (che ha scatenato un putiferio per le sue dichiarazioni sulla non incidenza del petrolio nei cambiamenti climatici), si è posta la questione di dare più tempo al processo di decarbonizzazione, puntando – nelle more – alla costruzione di nuove centrali nucleari -cd. “di nuova generazione” – al fine di triplicare la produzione energetica, considerando la fissione dell’atomo una fonte di energia ancor più “pulita” ed efficace rispetto a quelle alternative reclamate dal movimento ecologista.