Cambiano i tempi, il contesto storico, il sistema di potere, almeno in parte, ma in Russia chi si oppone al regime trova la morte. Dalle purghe staliniane, ai dissidenti degli anni Sessanta e Settanta, proseguendo al dopo 89”, eccetto la breve stagione gorbacioviana che seppure con tutte le contraddizioni e le ambiguità, aveva sollevato illusioni e speranze, il filo rosso di sangue non si interrompe.
Le modalità della morte di Aleksej Naval’nyi ricordano quelle di tante esecuzioni di Stato. Il balbettio delle versioni ufficiali confermano quella che è stata la “cronaca di una morte annunciata”. Per Putin era essenziale togliere di mezzo colui che, nonostante a quanto si dice, non fosse particolarmente amato in patria, era comunque uno dei punti di riferimento per coloro che corraggiosamente cercano di opporsi al micidiale sistema di potere del nuovo Zar che, come in passato, non può tollerare chi senza esitazione cerca di costruire una opposizione organizzata o come, Anna Politkovskaja, senza paura denuncia i crimini del regime putiniano.
Dicevamo del tentativo di Gorbaciov subito dopo il crollo del Muro di innescare un processo di cambiamento cercando di trovare una possibile “terza via”. Presumibilmente si trattava di una impresa disperata e titanica, ma è bene ricordare che fu proprio l’Occidente a scegliere Eltsin, molto più in sintonia con lo scenario che già da tempo di stava imponendo, caratterizzato dalla restaurazione capitalista e dall’illusione degli Stati Uniti di una totale egemonia mondiale, non tenendo presente delle nuove forze che si stavano affacciando sulla scena internazionale, in primis il gigante cinese.
Un cambio di paradigma di fronte al quale la prima guerra irachena si pose come fondante, cioè segnale il tentativo di un nuovo ordine globale a stelle e strisce. Appunto una illusione che i decenni successivi hanno radicalmente messo in discussione, una illusione che ha poi portato a credere che fosse possibile usare l’avvicinamento dei Paesi dell’Est all’Occidente per chiudere in una morsa un Paese immenso e ancora potente, se non altro militarmente, come la Russia che alla fine degli anni Novanta vide salire al potere Vladimir Putin, prima ben accolto e sedutosi al tavolo dei G8, poi espulso come se prima il suo non fosse un sistema di potere criminale. Da qui si è innestata una dinamica che ho portato alla macelleria ucraina e tutto ciò che ne sta conseguendo.
Tornando a Navalny la sua morte ha sollevato l’ipocrita levata di scudi dell’establishment occidentale, in tutte le sue articolazioni, che da parte sua annovera tra i propri alleati o referenti campioni di democrazia come Erdogan, Al Sisi, Mohammed Bin Salaman, solo per citarne alcuni. E proprio in queste ore prima Stoltenberg e a seguire la Van der Lyen annunciano che la corsa al riarmo dovrà accelerare, anzi il Segretario generale della Nato ha detto chiaramente che bisogna “produrre armi come fossimo in guerra”.
In realtà lo scenario è sempre più a tinte fosche ed evoca la “ trappola di Tucidide”; la cosiddetta guerra mondiale a pezzi sembra andare irreversibilmente a ricomporsi in unico puzzle e non si vede chi o cosa possono fermare questa folle corsa, invertire la tendenza.