Susanna Fioretti è presidente della Ong NOVE Caring humans che porta avanti progetti in Afghanistan da molti anni ed è riuscita a continuare il suo lavoro in quella terra martoriata, anche dopo la presa del potere da parte dei talebani nell’agosto del 2021.
Susanna Fioretti a dicembre hai potuto compiere un’altra missione in Afghanistan, come hai trovato il paese? Hai notato degli sviluppi positivi?
La situazione è complicata, è una dittatura con i pochi pro e i molti contro delle dittature. I pro sono il fatto che la sicurezza è migliorata, gli attentati sono diminuiti perché gran parte degli attentati li facevano i talebani; ora non ne hanno più motivo e quindi accadono di meno, i pochi sono ad opera di oppositori come ad esempio ISIS. Questo significa che ci si può spostare con maggiore sicurezza, viaggiare. Inoltre, sebbene la povertà sia aumentata, sembra ci siano meno rapimenti e altri crimini perché, non essendo uno stato di diritto, ossia mancando molte tutele legali, fa paura essere arrestati, finire in una prigione dove a volte si ‘sparisce’, non si possono avere visite, spesso nemmeno un avvocato e la possibilità di difendersi.
Faccio due esempi per illustrare il modo in cui vengono risolti certi problemi. In passato le strade erano piene di bambini che mendicavano o vendevano. Un fenomeno dovuto alla povertà, allo stato in cui si trovano molte famiglie senza reddito, in particolare quelle in cui ci sono persone disabili, o il capofamiglia è una donna che non ha possibilità di lavorare né il sostegno di un uomo. In queste situazioni i bambini sono una risorsa importante, a volte l’unica, e i pochi soldi che portano a casa servono alla sopravvivenza della famiglia. Ora di bambini per strada non ce ne sono quasi più, perché i talebani hanno vietato ai minori di mendicare e lavorare. Una decisione sensata, in linea teorica, ma per metterla in pratica senza peggiorare la povertà bisognerebbe dare dei sussidi alle famiglie, far sì che i bambini vadano a scuola. I talebani invece non danno sussidi, si limitano ad arrestare e mettere nel carcere minorile i bambini che mendicano o lavorano. Lo stesso più o meno succede con spacciatori e tossicodipendenti, quasi del tutto spariti dalle strade perché, mi è stato detto, vengono arrestati, diffidati e, se ripescati sul fatto, spediti ai lavori forzati.
Veniamo alla situazione femminile: che sia migliorata non si può dire, anzi. Alle donne restano proibite le scuole secondarie, le università, le cariche pubbliche nonché gran parte dei lavori ed altro. Ci sono stati ultimamente arresti di donne perché non erano vestite adeguatamente, cioè non indossavano lo hijab nel modo corretto, il che può voler dire che si vedeva un pezzo di collo o i capelli, teoricamente si devono vedere solo gli occhi. Altri arresti sono avvenuti per mancanza di mahram, l’accompagnatore maschile che è obbligatorio per le donne quando si muovono oltre certe distanze; in città di solito possono muoversi da sole ma ultimamente ci sono stati arresti di donne senza mahram anche a Kabul. È intervenuta la comunità ma alcune sono tuttora in prigione.
NOVE continua a svolgere attività per le donne in Afghanistan, paese definito, secondo me non a torto, il peggiore al mondo per una donna. Per farlo dobbiamo negoziare a vari livelli sia con le autorità talebane sia con quelle tradizionali come i Consigli di Comunità e degli Anziani. Per fare fronte alla miseria crescente del paese, dopo la presa di potere dei talebani abbiamo dovuto aumentare le attività di emergenza come la distribuzione di cibo o denaro per la sopravvivenza, e legna per scaldarsi nel gelido inverno. Abbiamo anche progetti come Dignity, finanziato dal Trust Nel nome della Donna, che assiste continuativamente le famiglie più povere per mesi o anni, finché ne hanno bisogno o finché avremo fondi sufficienti, pagando il cibo, l’affitto e altre spese essenziali. Questo progetto offre anche supporto scolastico per i bambini e formazione in attività consentite alle donne, ad esempio piccola sartoria, con le quali possono arrivare all’autonomia economica e non dipendere più da un aiuto economico esterno, che non può durare per sempre.
Quando dobbiamo fare le distribuzioni alle donne in povertà – NOVE si occupa soprattutto di donne- abbiamo bisogno di personale femminile. Infatti uomini non di famiglia non possono entrare in casa di una donna, e noi dobbiamo farlo per selezionare le donne che hanno più bisogno di aiuto, verificare le condizioni in cui vivono, poi per consegnare gli aiuti e monitorare. Alle ong però è vietato assumere donne; in certi casi si riesce a farlo ma devono lavorare da casa, non possono venire in ufficio o girare per i quartieri come è necessario. Il risultato è che non possiamo operare e allora, per non fermarci, parliamo con i responsabili della zona dove vogliamo intervenire, spiegando: “Noi vorremmo aiutare le donne della vostra zona ma abbiamo questo ostacolo”. La discussione in genere finisce con un assenso da parte loro, però informale, non scritto, cioè ci dicono più o meno: “Va bene, fatele lavorare, se capita qualcosa cercheremo di risolverlo noi, di proteggervi dalle conseguenze”. Ci dobbiamo accontentare di questo e in genere va liscia, perchè quando la comunità è informata e approva quell’attività, che va a suo beneficio, diventa suo interesse evitare i problemi. Ma se capita, come è capitato, che la polizia religiosa, avvertita da qualcuno, faccia una visita improvvisa, possono esserci guai, conseguenze anche gravi.
Sebbene la scuola femminile sia vietata al di sopra della prima media, ci sono dei centri autorizzati dove si insegna inglese alle donne. Anche noi offriamo classi femminili di inglese, gratuite. Teniamo anche dei corsi che chiamiamo di ‘educazione alternativa’, di cui non posso dare dettagli perché non sono attività ufficiali. Questo ed altro riusciamo a farlo grazie ai nostri donatori, come la Galleria Altai e l’8×1000 dell’Unione Buddista, che non dimenticano l’Afghanistan e le sue donne, benché non se ne parli quasi più.
NOVE si occupa inoltre di dare alle donne i mezzi per imparare un mestiere e svolgerlo, ed avere così un reddito sufficiente a vivere. Lo facciamo come accennavo prima con il progetto Dignity ma non solo. Per esempio con “Bread for Women” abbiamo ristrutturato tre panetterie gestite da donne (collocate nel perimetro della loro casa perché le donne non possono lavorare per strada); abbiamo poi aiutato le fornaie a migliorare le loro competenze, sia tecniche sia quelle contabili di base per la gestione, e ora compriamo tutto il pane che producono per distribuirlo gratuitamente a donne povere. Un altro esempio sono i corsi femminili di “Marketing business e competenze trasversali” che abbiamo fatto l’anno scorso, grazie ai quali il 55% circa delle partecipanti ha trovato lavoro.
La situazione per le donne, e per progetti come i nostri mirati a sostenerle, non è uguale in tutto l’Afghanistan. Ci sono anzi molte differenze e sfumature, da città a città e soprattutto da città a zone rurali. In generale, le attività commerciali in settori tradizionalmente aperti alle donne sono consentite. I talebani, forse a causa della grande povertà, consentono alle donne di produrre e commerciare articoli come quelli agroalimentari e di artigianato. A Kabul ho visitato una fiera, un’esposizione per sole donne, con centinaia di partecipanti e stand femminili di ogni genere. Ci sono tante incongruenze comunque: una donna non può fare sport o passeggiare in un parco, ma può commerciare; in alcuni ministeri tutte le impiegate sono state epurate, in altri, come quello dell’Agricoltura, ci sono tuttora donne che lavorano in ufficio, separate dagli uomini. Lo stesso succede all’aeroporto e nelle banche, dove ho visto donne lavorare fianco a fianco con gli uomini.
Per operare di questi tempi in Afghanistan bisogna essere flessibili, pronti a cambiare non la meta ma magari la rotta per raggiungerla; bisogna accettare di correre qualche rischio, trattare e trovare compromessi, entro certi limiti, se non si vuole abbandonare gli afghani al loro destino. Da quando ci sono i talebani procediamo così. Finora è andata bene ma, non sappiamo prevedere come proseguirà, che evoluzioni ci saranno.
Abbiamo l’impressione che i talebani si sentano man mano più forti e abbiano forse più fondi, benché pare che abbiano ridotto la produzione dell’oppio almeno del 90 per cento. Io non so se e che aiuti abbiano da paesi come Cina e/o Emirati Arabi, se come sembra possano far a meno di quelli occidentali. Posso solo dire la mia impressione, quando ho incontrato ministri e altre cariche nel 2022, erano molto aperti alle nostre proposte, disposti a trovare punti di incontro; ora sono sempre gentili ma più assertivi riguardo a ciò che vogliono loro, ciò che accettano e non accettano.
Quest’ultima informazione sul cambio di atteggiamento delle autorità talebane sembrerebbe in linea con la nuova risoluzione dell’ONU di dicembre per cui l’Afghanistan viene reintegrato nella comunità internazionale e non verrà più fatta una specifica pressione sui diritti alle donne. Anche se non ufficialmente, la questione dei diritti delle donne non è più nel frontline, una grande spina che è stata tolta dal fianco dei Talebani, non trovi?
La mia opinione, basata su quello che vedo accadere, è che per i diritti femminili non è cambiato niente, nessun passo avanti. Mi sono stupita quando un rappresentante distrettuale ci ha chiesto di aprire una sorta di liceo femminile nella sua zona. Pensavo di aver capito male, lui però ha ribadito la richiesta. Ho obiettato: “Ma non è proibito?” “Si può fare” ha replicato, “basta capirsi e accordarsi…”. Ha proseguito spiegando che i talebani che sono a contatto con la comunità, vedono e sentono la sofferenza della gente, si rendono conto pure della disperazione delle donne, di quanto è difficile sopravvivere per quelle povere e senza l’appoggio di un uomo. Ha accennato anche alla depressione delle ragazze (in grave aumento, come i suicidi, perché sono di fatto costrette a stare chiuse in casa senza prospettive, senza sapere quanto durerà, se potranno mai tornare a studiare, a viaggiare, a costruirsi un futuro). Lui ed altri talebani, ha detto il mio interlocutore, si fanno carico di questi problemi, e ottengono a volte l’autorizzazione informale dei capi a svolgere certe attività: purché non si sappia, non sia ufficializzato. Insomma c’è spazio per qualche palliativo, qualche apertura basata sulla motivazione di singoli. Ma i divieti e la mancanza di diritti per le donne restano, sulla carta e in gran parte anche nei fatti.